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Newsletter Osservatorio Europa n.6_2014

Osservatorio Europa

Newsletter n. 6 del 16 maggio 2014

 

Sommario:

CONVEGNI 1

FORMAZIONE 3

NOVITÁ LEGISLATIVE 4

SEGNALAZIONI EDITORIALI 4

ALTRE NOTIZIE 5

GIURISPRUDENZA ITALIANA 6

GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA 7

GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO 17


CONVEGNI


19 maggio 2014, Roma

“LA PROCURA EUROPEA. Un impegno per il semestre di presidenza italiano”
L’Unione delle Camere Penali, unitamente alla Fondazione Chinnici, al Centro Studi 'Quale Giustizia' e alla Libera Università Internazionale degli Studi Sociali 'Guido Carli', organizza un imperdibile convegno dal titolo “LA PROCURA EUROPEA. Un impegno per il semestre di presidenza italiano”, a cui interverranno Donatella Ferranti (Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati), Caterina Chinnici (Vice Presidente Fondazione Chinnici), Andrea Orlando (Ministro della Giustizia), Roberto E. Kostoris (Ordinario di Diritto Processuale Penale, Università di Padova), Ernesto Lupo (Consigliere del Presidente della Repubblica per gli affari della giustizia); Andrea Venegoni (Magistrato, Ufficio Europeo per la Lotta Antifrode), Giovanni Chinnici (Avvocato, Coordinatore del Comitato di Studi della Fondazione Chinnici), Giovanni Bianconi (Corriere della Sera), Franco Roberti (Procuratore Nazionale Antimafia), Valerio Spigarelli (Presidente dell’Unione Camere Penali), Antonio La Spina (Ordinario di Sociologia del Diritto Luiss), Antonio Balsamo (Presidente della Corte di Assise di Caltanissetta), Luca Luparia (Ordinario di Procedura Penale, Università di Milano), Lorenzo Salazar (Direttore Ufficio Affari Internazionali, Ministero della Giustizia), Giuseppe Frigo (Giudice della Corte Costituzionale).
L’incontro è previsto per il 19 maggio 2014, dalle ore 15.00 alle ore 18.30 presso la Sala della Regina di Palazzo Montecitorio.


19 maggio 2014, Como

Giustizia penale e Unione europea: le nuove prospettive per il difensore
L’incontro di studio, organizzato dal Centro Studi di Diritto Penale Europeo, con il Patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Como, costituirà un’importante occasione di approfondimento dei seguenti temi: il nuovo quadro europeo dopo il Trattato di Lisbona, la “codificazione europea” dei diritti della difesa nelle recenti Direttive dell’Unione europea, il diritto dell'imputato alla segretezza della corrispondenza, lo strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il mandato di arresto europeo alla luce delle recenti pronunce della giurisprudenza.
L’importanza del convegno è confermata dalla presenza di relatori particolarmente qualificati, tra cui alcuni docenti dell’Università dell’Insubria (Prof.ssa Francesca Ruggieri, Ordinario di Diritto processuale penale e componente dell’Osservatorio; Prof.Vincenzo Salvatore, Ordinario di Diritto dell’Unione Europea; Avv. Alice Pisapia, Dottore di ricerca in Diritto dell’Unione Europea) e dell’Università degli Studi di Milano (Avv. Lucio Camaldo, Ricercatore in Diritto processuale penale; Avv. Federico Cerqua, Dottore di ricerca in Diritto processuale penale), oltre all’Avv. Renato Papa, Presidente del Centro Studi di Diritto Penale Europeo (CSDPE) e all’Avv. Alfredo De Francesco.
L’incontro si terrà in data 19 maggio 2014, ore 14.00-18.00 e si svolgerà a Como, presso l’Università dell’Insubria, nell’Aula magna del Chiostro di Sant’Abbondio (via Sant’Abbondio, 12).
Programma

 

12 giugno 2014, Firenze

Diritto all'interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali. Direttiva 2010/64/UE del Parlamento europeo e del Consiglio. D. l.vo 4 marzo 2014, n. 32. Diritti degli accusati e delle persone offese alloglotte. Per una cultura di atti processuali "europei"
L'incontro di studio, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, vedrà gli interventi della Prof.ssa Silvia Allegrezza (incaricata del Corso di Procedura penale europea - Università di Bologna) su: "La costruzione di uno statuto europeo dei diritti dell'imputato: conoscenza effettiva e partecipazione al rito", della Dr.ssa Sandra Recchione (giudice presso il Tribunale di Torino, formatore presso la Struttura territoriale di Torino della Scuola Superiore della Magistratura) su: “L’impatto della direttiva 2010\64\UE sulla giurisdizione penale: problemi, percorsi interpretativi, prospettive” e dell’Avv. Paola Rubini (avvocato del Foro di Padova e responsabile dell’Osservatorio Europa dell’Unione Camere Penali) su: “La direttiva sulla traduzione degli atti quale strumento per assicurare il diritto alla difesa effettiva della persona straniera".
L’evento si terrà alle ore 14.15 presso il Nuovo Palazzo di Giustizia, aula 32.


3 Luglio 2014, Passau

Strafrecht vor UN-ad-hoc Tribunalen. Aspekte aus distanzierter richterlicher Perspektive
Il 3 luglio prossimo avrà luogo un incontro con Wolfgang Schomburg, giudice presso i Tribunali Penali per la Jugoslavia e per il Ruanda dal 2001 al 2008, sul tema degli aspetti problematici delle corti penali create ad hoc dalle Nazioni Unite.
L’evento si terrà presso l’Università di Passau, Innstr., 31.
Locandina

 

FORMAZIONE


23-24 maggio 2014, Venezia

L'Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani organizza un corso di specializzazione sulla tutela europea dei Diritti Umani, che tratterà i seguenti temi: “Il sistema di protezione dei diritti umani istituito dalla CEDU: genesi ed evoluzione ed il dialogo tra le Corti alla luce della futura adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti umani”, “Rango e applicazione della Convenzione europea nell’ordinamento italiano”, “I diritti garantiti dalla CEDU”, “Rimedi per l’irragionevole durata dei processi”, “Condizioni di ricevibilità e procedura di esame dei ricorsi individuali”, “L’impatto della giurisprudenza CEDU nell’ordinamento penale italiano”, “Le violazioni strutturali della CEDU e la procedura della sentenza pilota”, “Le garanzie previste dalla Convenzione europea dei diritti umani in materia penale; in particolare, il principio di legalità” e si concluderà con un’esercitazione pratica sulle modalità di redazione dei ricorsi alla Corte di Strasburgo.
Il corso si svolgerà presso la Scuola Grande San Giovanni Evangelista a Venezia.
Sito ufficiale

 

30 giugno-4 luglio 2014, Bruxelles

Summer school “The European Area of Criminal Justice”
Si segnala un’interessante summer school, organizzata dall’Institute for European Studies (ULB), dedicata alla cooperazione in materia penale.
La scuola prevede una serie di lezioni, tenute da accademici, esperti degli Stati membri e componenti delle istituzioni europee operanti in ambito penale, che combineranno l'approfondimento teorico ad elementi pratico-operativi.
Sito ufficiale

 

NOVITÀ LEGISLATIVE


12 maggio 2014 – Pubblicate nella GUCE le direttive sull’ordine europeo di indagine penale e sul congelamento e confisca dei beni strumentali e dei proventi di reato nella Ue

La direttiva 2014/41/Ue relativa all’Ordine Europeo di indagine penale (OEI), da recepire entro il 22 maggio 2017, introduce uno strumento per l’immediata acquisizione delle prove oltre frontiera attraverso un contatto diretto tra l’Autorità Giudiziaria dello Stato di emissione e quella dello Stato di esecuzione. Tra gli atti di indagine che sarà possibile richiedere, anche dalla difesa, vi sono: l’audizione di testi e periti in videoconferenza, il trasferimento temporaneo di detenuti, le intercettazioni, l’utilizzo di agenti infiltrati per indagini sotto copertura, le indagini sui conti correnti bancari aperti in un altro Stato membro da una persona fisica o giuridica.
La direttiva 2014/42/Ue relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi di reato nell’Ue, da recepire entro il 4 ottobre 2015, ha come obiettivo il recupero dei proventi di reato consentendo la confisca nei confronti di terzi. La gestione dei beni confiscati dovrà essere affidata auffici nazionali centralizzati. La direttiva raccomanda agli Stati membri di utilizzare i beni confiscati per scopi di interesse pubblico o sociale. Ogni anno gli Stati membri dovranno inviare alla Commissione Europea le statistiche sui beni confiscati
L’Osservatorio Europa, vista la delicatezza dei temi trattati dalle direttive in argomento, sta predisponendo un documento di commento che verrà pubblicato al più presto.

 

SEGNALAZIONI EDITORIALI


Mitja Gialuz - Il decreto legislativo di attuazione della direttiva sull’assistenza linguistica (n. 32 del 2014): un’occasione sprecata per modernizzare l’ordinamento italiano, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 10 aprile 2014.

Interessante nota, in chiave critica, al decreto legislativo n. 32 del 2014 attuativo della direttiva 2010/64/UE del 20 ottobre 2010 sul diritto alla interpretazione ed alla traduzione nei procedimenti penali, di cui l’Osservatorio si era già occupato nelle precedenti newsletter.
In particolare, ad avviso dell’Autore, la parte più deludente della riforma è quella relativa alla qualità dei servizi di interpretazione e di traduzione.
Il legislatore delegato, infatti, non ha sancito espressamente il dovere di nominare interpreti e traduttori che siano inseriti nell'albo di cui all'art. 67 disp. att. c.p.p., con il risultato che si potrà continuare a rivolgersi non ad esperti (quasi) professionisti, ma ai tradizionali "conoscitori della lingua".
Per di più, sul versante degli strumenti processuali, il Governo non ha introdotto la ricusazione “preventiva” dell'interprete per inadeguatezza (in linea con quanto stabilito dagli artt. 2, par. 5 e 3, par. 5 della direttiva), con la conseguenza che il presidio della qualità sarà affidato allo strumento delicato della nullità di ordine generale di cui all'art. 178, lett. c), c.p.p., e non ha nemmeno previsto un'incompatibilità di ruolo dell'interprete d'ufficio rispetto all'interprete nominato dalla parte (nonostante gli auspici della Corte costituzionale) e un'incompatibilità di funzione tra l'interprete che ha assistito l'autorità inquirente nel corso delle indagini preliminari e l'interprete d'udienza (nonostante quanto stabilito recentemente dalle Sezioni Unite).
Ritiene inoltre l’Autore che “il secondo difetto fondamentale della manovra” sia rappresentato dall’estensione del diritto all'assistenza linguistica ai colloqui con il difensore compiuti prima di rendere un interrogatorio, ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento (art. 143, comma 1, c.p.p.), oppure ai colloqui con l'alloglotto in stato di custodia cautelare, di arresto o di fermo (art. 104, comma 4-bis c.p.p.), superando quella giurisprudenza restrittiva che obbligava l'imputato a nominare un interprete di fiducia per preparare la redazione degli atti processuali di parte.
Le “poche luci del decreto”, ad avviso dell’Autore, riguardano invece la modifica del testo unico sulle spese giudiziarie: prevedendo l'esclusione dagli ausiliari ai fini della ripetibilità delle spese degli interpreti e dei traduttori nominati nei casi previsti dall'art. 143 c.p.p., infatti, si ottiene il risultato che, anche in caso di condanna dell'imputato alloglotto, le spese per l'assistenza linguistica rimangono a carico dello Stato.
Leggi l'articolo

 

ALTRE NOTIZIE


Guida per presentare ricorso e poi patrocinare avanti alla Cedu

Si segnala la diffusione da parte del CCBE di una guida, in inglese, che potrebbe rivelarsi molto utile per gli avvocati che intendano presentare un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e poi patrocinare avanti ad essa.
La guida, infatti, contiene informazioni pratiche sul procedimento avanti ai giudici nazionali precedente al ricorso, sul procedimento innanzi alla Corte, nonché sull'esecuzione delle sentenze della stessa.
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Rapporto annuale del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria

Secondo il rapporto annuale pubblicato il 29 aprile 2014 dal Consiglio d'Europa, che si basa sui dati raccolti nel 2012, a quell’epoca “le prigioni erano sovrappopolate in 22 Paesi” dei 47 membri del Consiglio.
Più specificamente, in Italia c’erano145,4 detenuti per 100 posti disponibili, contro una media di 98 su 100, e si trattava della situazione peggiore tra i 28 Stati membri dell'Unione Europea, mentre, tra i 47 Paesi che fanno parte del Consiglio d'Europa, il sovraffollamento era più grave solo in Serbia.


Apertura della procedura per la elezione dei componenti delle commissioni disciplinari presso la International Criminal Court

Preme dare notizia dell’annucio dell’ICC riguardante l’apertura della procedura per la elezione dei componenti delle commissioni disciplinari.
Il mandato dura 4 anni e i candidati eleggibili (2 compenenti effettivi e 1 supplente) debbono essere persone con riconosciuta competenza nell'etica professionale e nelle materie legali.
Modalità e i termini per proporre la propria candidatura

 

GIURISPRUDENZA ITALIANA

Cass. pen, Sez. III, 26 febbraio 2014, n. 16022

In una recente sentenza in tema di esecuzione all’estero di una sentenza di condanna a pena restrittiva della libertà personale la Suprema Corte ha ritenuto che, quando la procedura di cooperazione giudiziaria trae origine da una richiesta specifica dell’interessato, diversamente dal consenso alla consegna per l’esecuzione della pena ai sensi della Convenzione di Strasburgo, l’irrevocabilità della richiesta non può essere desunta dalla regola generale posta dall’art. 205 bis disp. att. c.p.p..
Secondo i giudici di legittimità, tuttavia, un’eventuale revoca della richiesta rimane strutturalmente soggetta ad una valutazione di compatibilità con i tempi propri della singola procedura, da ciò derivandone l’impossibilità di proporla dopo che su di essa sia intervenuta la decisione giurisdizionale che ha accertato la sussistenza delle condizioni di legittimità.

 

GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA


Conclusioni dell’avvocato generale NILS WAHL presentate il 10 aprile 2014 nelle cause riunite C58/13 e C59/13 Angelo Alberto Torresi e Pierfrancesco Torresi / Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Macerata (Domande di pronuncia pregiudiziale proposte dal Consiglio Nazionale Forense)


«Nozione di “organo giurisdizionale di uno Stato membro” – Consiglio Nazionale Forense – Indipendenza – Imparzialità – Articolo 3 della direttiva 98/5/CE – Validità – Esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica – Abuso del diritto – Rispetto dell’identità nazionale»I sigg. Angelo Alberto Torresi e Pier Francesco Torresi (in prosieguo: i «sigg. Torresi») sono cittadini italiani che, dopo aver acquisito il diritto di usare il titolo professionale di «abogado» in Spagna, hanno richiesto l’iscrizione al competente Consiglio dell’ordine degli avvocati in Italia per poter esercitare con tale titolo la professione in Italia. Le loro domande erano basate sulle leggi italiane di trasposizione della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica. Poiché il Consiglio dell’ordine degli avvocati locale non si è pronunciato su tali domande entro il termine previsto, i sigg. Torresi hanno presentato ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense (in prosieguo: il «CNF»). Nel corso di tale procedimento, il CNF ha deciso di deferire alla Corte, in base al procedimento di rinvio pregiudiziale, due questioni riguardanti l’interpretazione e la validità della direttiva 98/5, alla luce dei principi che vietano l’«abuso del diritto» e impongono il «rispetto dell’identità nazionale». Ad avviso dell’Avvocato generale, la Corte di giustizia è competente a conoscere della controversia sottopostale dal CNF. Pur essendo composto da avvocati e decidendo sulle domande di iscrizione all’albo degli avvocati, il CNF può tuttavia essere ritenuto sufficientemente indipendente ed imparziale, in quanto sussistono determinate garanzie procedurali. Pertanto il CNF soddisfa gli stessi criteri degli organi giurisdizionali nazionali e può adire in via pregiudiziale la Corte di giustizia su questioni di diritto dell’Unione. In particolare, secondo l’Avvocato generale è importante notare che, come ha chiarito la Corte, un organo nazionale può essere classificato come un organo giurisdizionale ai sensi dell’articolo 267 TFUE quando esercita funzioni giurisdizionali, anche se non è riconosciuto come tale quando esercita funzioni di natura amministrativa. Così, nel caso di un organo a cui la legge affida diverse categorie di funzioni – è il caso del CNF – la Corte ha dichiarato che è necessario determinare quale funzione esercita tale organo nel particolare contesto normativo in cui chiede una pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TFUE. A tal riguardo, la Corte ha attribuito una particolare importanza al fatto che vi sia una «lite» pendente dinanzi a tale organo e che quest’ultimo sia chiamato a statuire nell’ambito di un procedimento destinato a risolversi in una pronuncia di carattere giurisdizionale. Nella sentenza Gebhard, la Corte ha già ammesso una domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TFUE su questioni sollevate dal CNF riguardo all’interpretazione della direttiva 77/249/CEE intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati. Benché tale sentenza non faccia esplicitamente riferimento alla competenza della Corte a rispondere alle questioni pregiudiziali, da ciò non può desumersi che la Corte abbia trascurato tale aspetto della controversia. Altresì, l’Avvocato generale rammenta che la sentenza Wilson, citata dai sig. Torresi, s’iscrive in quella linea giurisprudenziale in cui la Corte ha dichiarato che gli organi nazionali chiamati a statuire sui ricorsi contro le decisioni emesse dagli organismi professionali possono o meno rientrare nella nozione di «organo giurisdizionale» ai fini dell’articolo 267 TFUE, a seconda delle specifiche circostanze del caso concreto. A suo avviso, se l’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 98/5 deve essere correttamente trasposto nel diritto nazionale, quest’ultimo deve prevedere un ricorso che – tra le altre caratteristiche – sia pienamente conforme ai requisiti di cui all’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «CEDU») e all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»). Viceversa, non è affatto evidente che, nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione, l’articolo 267 TFUE imponga un requisito così rigoroso affinché un organo giurisdizionale nazionale possa adire la Corte in base al procedimento di rinvio pregiudiziale. Al contrario, proprio le ragioni a favore di un’applicazione rigorosa dell’articolo 6 della CEDU e dell’articolo 47 della Carta sembrano militare in favore di un’interpretazione meno rigida della nozione di «organo giurisdizionale» ai fini dell’articolo 267 TFUE. Un’applicazione rigorosa dei requisiti di cui all’articolo 6 della CEDU e all’articolo 47 della Carta è necessaria per rafforzare la protezione degli individui e per garantire un elevato standard di tutela dei diritti fondamentali. Tuttavia, un’applicazione eccessivamente rigorosa dei criteri individuati dalla giurisprudenza della Corte sull’ammissibilità dei rinvii pregiudiziali ai sensi dell’articolo 267 TFUE rischierebbe di produrre il risultato opposto: i singoli sarebbero privati della possibilità di sottoporre le loro rivendicazioni basate sul diritto dell’Unione al «giudice naturale» (la Corte di giustizia) e, di conseguenza, l’efficacia del diritto dell’UE in tutta l’Unione europea ne risulterebbe indebolita. Con le presenti ordinanze di rinvio, l’Avvocato generale chiarisce che alla Corte non è stato chiesto se il meccanismo di ricorso dinanzi al CNF sia conforme all’articolo 9, secondo comma, della direttiva 98/5, né tale questione può essere sollevata d’ufficio dalla Corte. Se le garanzie stabilite dalla sua giurisprudenza sono soddisfatte (come avviene, a mio avviso, nel caso del CNF), non vi sono ragioni perché la Corte rifiuti di emettere una decisione sulla base di una presunta mancanza di imparzialità o di indipendenza in senso stretto da parte dell’organo del rinvio. Nel merito, l’avvocato generale Wahl osserva che, secondo una costante giurisprudenza, il diritto dell’Unione non può essere invocato a fini abusi vi o fraudolenti. La constatazione dell’esistenza di un abuso richiede il concorso di circostanze oggettive (nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non è stato raggiunto) e di un elemento soggettivo (la volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento). Spetta al giudice nazionale accertare l’esistenza dei due elementi suddetti conformemente alla normativa nazionale, a condizione che l’efficacia del diritto dell’Unione non ne risulti compromessa. In tale contesto, l’avvocato generale ricorda che lo scopo della direttiva è quello di facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale. Il diritto dei cittadini di uno Stato membro di scegliere lo Stato membro nel quale desiderano acquisire il loro titolo professionale è inerente all’esercizio, in un mercato unico, delle libertà fondamentali garantite dai trattati dell’Unione. La direttiva ha realizzato la completa armonizzazione dei requisiti preliminari all’esercizio di tale diritto. La presentazione all’autorità competente dello Stato membro ospitante (nella fattispecie: l’Italia) di un certificato di iscrizione presso l’ordine dello Stato membro di origine (nella fattispecie: la Spagna) è l’unico requisito necessario per l’iscrizione nello Stato membro ospitante, che consente alla persona di esercitare la sua attività in quest’ultimo Stato membro con il suo titolo professionale di origine. È ininfluente, ai sensi della direttiva, il fatto che l’avvocato abbia la cittadinanza dello Stato membro ospitante. Il legislatore dell’Unione non ha infatti inteso consentire agli Stati membri di attuare discriminazioni alla rovescia escludendo i propri cittadini dai diritti conferiti da tale direttiva. Inoltre la Corte ha già statuito che la direttiva non consente che l’iscrizione di un avvocato nello Stato membro ospitante possa essere subordinata ad ulteriori condizioni (come ad esempio un colloquio inteso ad accertare la padronanza della lingua o lo svolgimento di un determinato periodo di pratica o di attività come avvocato nello Stato membro di origine). Se non è richiesta alcuna precedente esperienza per esercitare, ad esempio, come «abogado» in Spagna, non vi è ragione di richiedere una tale esperienza per esercitare con il medesimo titolo professionale ( « abogado » ) in un altro Stato membro. A tal riguardo, non può essere attribuita alcuna importanza al fatto che l’avvocato intenda approfittare di una normativa estera più favorevole o che egli presenti la domanda di iscrizione all’albo poco dopo aver ottenuto il titolo professionale all’estero. Pertanto, l’avvocato generale ritiene che una prassi come quella italiana possa pregiudicare, tale Stato membro, il corretto funzionamento del sistema creato dalla direttiva e quindi compromettere seriamente i suoi obiettivi. L’avvocato generale sottolinea tuttavia che, qualora le autorità dello Stato membro ospitante, in un caso specifico, sospettino una condotta fraudolenta e, in seguito ad un’indagine approfondita, accertino che ricorrono entrambi gli elementi, oggettivo e soggettivo, di un abuso, non è loro precluso respingere una domanda in ragione di un abuso del diritto. In tali casi specifici, la direttiva prevede anche la possibilità di chiedere la collaborazione delle autorità dello Stato membro in cui il titolo è stato ottenuto. L’avvocato generale conclude, dunque, che la direttiva sul diritto di stabilimento degli avvocati non ammette la prassi di uno Stato membro di rifiutare, con la motivazione dell’abuso del diritto, l’iscrizione all’albo degli avvocati, nella sezione speciale riservata agli avvocati che hanno ottenuto la qualifica all’estero, di cittadini di tale Stato membro che, poco dopo aver ottenuto il titolo professionale in un altro Stato membro, ritornino nel loro Stato membro di origine.

 

Sentenza dell’8 aprile nella cause riunite C293/12 e C-594/12 Digital Rights Ireland e Seitlinger e a.

«Ravvicinamento delle legislazioni - Telecomunicazioni - Principi, obiettivi e missioni dei Trattati - Cittadinanza dell'Unione - Diritti fondamentali - Carta dei diritti fondamentali - Protezione dei dati»

La High Court (Alta Corte, Irlanda) nonché il Verfassungsgerichtshof (Corte costituzionale, Austria) chiedono alla Corte di giustizia di esaminare la validità della Direttiva 2006/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, riguardante la conservazione di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione e che modifica la direttiva 2002/58/CE, segnatamente alla luce di due diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ossia il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla protezione dei dati di carattere personale. La High Court è chiamata a pronunciarsi su una controversia tra la società irlandese Digital Rights e le autorità irlandesi in merito alla legittimità di provvedimenti nazionali riguardanti la conservazione di dati relativi a comunicazioni elettroniche. Il Verfassungsgerichtshof è investito di vari ricorsi in materia costituzionale presentati dalla Kärtner Landesregierung (governo del Land di Carinzia) nonché dai sigg. Seitlinger, Tschohl e da altri 11 128 ricorrenti. Tali ricorsi mirano ad ottenere l’annullamento della disposizione nazionale che attua la direttiva nel diritto austriaco. Con la sentenza dell’8 aprile, la Corte dichiara la direttiva in esame invalida per i seguenti motivi. La Corte rileva, anzitutto, che i dati da conservare consentono, in particolare, 1) di sapere con quale persona e con quale mezzo un abbonato o un utente registrato ha comunicato, 2) di determinare il momento della comunicazione nonché il luogo da cui ha avuto origine e 3) di conoscere la frequenza delle comunicazioni dell’abbonato o dell’utente registrato con determinate persone in uno specifico periodo. Tali dati, considerati congiuntamente, possono fornire indicazioni assai precise sulla vita privata dei soggetti i cui dati sono conservati, come le abitudini quotidiane, i luoghi di soggiorno permanente o temporaneo, gli spostamenti giornalieri o di diversa frequenza, le attività svolte, le relazioni sociali e gli ambienti sociali frequentati. La Corte ritiene che la direttiva, imponendo la conservazione di tali dati e consentendo vi l’accesso alle autorità nazionali competenti, si ingerisca in modo particolarmente grave nei i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale. Il fatto, poi, che la conservazione ed il successivo utilizzo dei dati avvengano senza che l’abbonato o l’utente registrato ne siano informati può ingenerare negli interessati la sensazione che la loro vita privata sia oggetto di costante sorveglianza. Altresì, la Corte ritiene che, da un lato, la conservazione dei dati risponde effettivamente a un obiettivo di interesse generale, vale a dire la lotta alla criminalità grave nonché, in definitiva, la pubblica sicurezza, ma, dall’altro, il contenuto della direttiva ecceda i limiti imposti dal rispetto del principio di proporzionalità. Anche se la conservazione dei dati imposta dalla direttiva può essere considerata idonea a raggiungere l’obiettivo perseguito dalla medesima, l’ingerenza vasta e particolarmente grave di tale direttiva nei diritti fondamentali in parola non è sufficientemente regolamentata in modo da essere effettivamente limitata allo stretto necessario. La Corte constata peraltro che la direttiva non prevede garanzie sufficienti ad assicurare una protezione efficace dei dati contro i rischi di abusi e contro qualsiasi accesso e utilizzo illeciti dei dati. Essa rileva, tra l’altro, che la direttiva autorizza i fornitori di servizi a tenere conto di considerazioni economiche in sede di determinazione del livello di sicurezza da applicare (in particolare per quanto riguarda i costi di attuazione delle misure di sicurezza) e non garantisce la distruzione irreversibile dei dati al termine della loro durata di conservazione. La Corte censura, infine, il fatto che la direttiva non impone che i dati siano conservati sul territorio dell’Unione. La direttiva non garantisce, quindi, il pieno controllo da parte di un’autorità indipendente del rispetto delle esigenze di protezione e di sicurezza, come è invece espressamente richiesto dalla Carta. Orbene, un controllo siffatto, compiuto sulla base del diritto dell’Unione, costituisce un elemento essenziale del rispetto della protezione delle persone con riferimento al trattamento dei dati personali.

 

Sentenza del 2 aprile nella causa T -133/12 Mehdi Ben Tijani Ben Haj Hamda Ben Haj Hassen Ben Ali / Consiglio
«Relazioni esterne - Politica estera e sicurezza comune - Decisione del Consiglio 2012/50/PESC»

Il 31 gennaio 2011, il Consiglio ha deciso di disporre il congelamento dei capitali delle persone responsabili di distrazione di fondi pubblici tunisini, da un lato, e delle persone, entità od organismi ad esse associate, dall’altro. Il sig. Mehdi Ben Ali, nipote dell’ex presidente tunisino Zine el-Abidine Ben Ali, è stato inserito nell’elenco delle persone assoggettate a tale misura sino al 31 gennaio 2012, in quanto persona soggetta ad indagine giudiziaria delle autorità tunisine per acquisizione di beni mobili e immobili, apertura di conti bancari e detenzione di capitali in diversi paesi nel quadro di operazioni di riciclaggio di denaro.
Un primo ricorso di annullamento proposto dal sig. Ben Ali dinanzi al Tribunale è stato respinto in quanto presentato tardivamente. In seguito, il Consiglio ha prorogato l’iscrizione dal 31 gennaio 2012 al 31 gennaio 2013, pertanto il sig. Ben Ali ha proposto un nuovo ricorso per chiedere l’annullamento di tale proroga nonché il risarcimento danni per un importo di EUR 50 000.
Il sig. Ben Ali sostiene, in particolare, di essere stato assoggettato a un congelamento di capitali in quanto persona soggetta ad « indagine giudiziaria », mentre la misura è stata istituita nei confronti di persone dichiarate « responsabili » di taluni fatti e non unicamente soggette a procedimento penale. Nell’ambito dell’analisi di tale argomento, il Tribunale rileva che l’indagine aperta nei confronti del sig. Ben Ali concerne il riciclaggio di denaro, mentre le misure restrittive sono state disposte nei confronti dei responsabili di distrazione di fondi pubblici tunisini e dei loro associati. Il Tribunale ritiene che il Consiglio non abbia dimostrato e nemmeno, peraltro, sostenuto che un soggetto possa essere qualificato, rispetto al diritto penale tunisino, come « responsabile della distrazione di fondi pubblici » (o associato a un soggetto di ciò responsabile) per il solo motivo di essere persona sottoposta ad un’« indagine giudiziaria » per atti di « riciclaggio di denaro ». Il Tribunale ritiene, pertanto, che il Consiglio abbia mantenuto nell’elenco il nome del sig. Ben Ali applicando criteri diversi rispetto a quelli da esso stesso stabiliti.
Per tali motivi il Tribunale decide di annullare la proroga dell’iscrizione del sig. Ben Ali, il cui nome deve intendersi come non più menzionato nell’elenco delle misure restrittive tra il 31 gennaio 2012 e il 31 gennaio 2013. Il Tribunale dispone anche che gli effetti della decisione annullata siano mantenuti fino allo scadere del termine per l’impugnazione della sentenza o, qualora entro tale termine sia stata proposta un’impugnazione, fino al suo rigetto, al fine di evitare che il sig. Ben Ali possa riuscire a trasferire completamente o in parte le sue attività al di fuori dell’Unione europea, in quanto non si può escludere che il mantenimento del nome del ricorrente nell’elenco sia giustificato da ragioni diverse da quelle descritte nella decisione impugnata. Da ultimo, il Tribunale rigetta la domanda di risarcimento del danno, per difetto di prova.

 

Sentenza del 27 marzo nella causa C-322/13 Ulrike Elfriede Grauel Rüffer / Katerina Pokorná

«Cittadinanza dell’Unione – Principio di non discriminazione – Regime linguistico applicabile ai processi civili»

Il Landesgericht Bozen (Tribunale di Bolzano) chiede alla Corte di giustizia se il diritto dell'Unione osti a che la facoltà di usare il tedesco dinanzi ai giudici della provincia di Bolzano sia riservata ai soli cittadini italiani residenti in tale provincia. Dagli atti a disposizione della Corte risulta che, il 22 febbraio 2009, la sig.ra Grauel Rüffer, cittadina tedesca residente in Germania, è caduta su una pista da sci situata nella provincia di Bolzano riportando una ferita alla spalla destra. A suo avviso, tale caduta è stata provocata dalla sig.ra Pokorná, cittadina ceca residente nella Repubblica ceca. La sig.ra Grauel Rüffer ha chiesto alla signora Pokorná il risarcimento del danno subìto chiede il risarcimento danni alla sciatrice ceca ritenuta responsabile dell'incidente. Poiché l'atto di citazione e la comparsa di risposta sono stati redatti in lingua tedesca, il Landesgericht Bozen, in virtù della normativa italiana, dovrebbe dichiarare nulli detti atti. Tuttavia, esso nutre dubbi sulla compatibilità di una tale nullità con il diritto dell'Unione. In particolare, durante la prima udienza, il giudice del rinvio, in considerazione della sentenza pronunciata dalla Corte suprema di cassazione il 22 novembre 2012 (sentenza n. 20715), ha sollevato la questione della scelta della lingua, vale a dire la lingua tedesca o la lingua italiana, in cui occorreva proseguire il procedimento. Nella suddetta sentenza, la Corte suprema di cassazione ha dichiarato che le disposizioni del D.P.R. n. 574/1988 si applicano solo ai cittadini italiani residenti nella provincia di Bolzano.
Detto giudice ritiene tuttavia che il diritto dell’Unione potrebbe ostare a che le disposizioni nazionali di cui trattasi nel procedimento principale vengano applicate secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte suprema di cassazione. Si porrebbe infatti la questione se dispongano della facoltà di usare la lingua tedesca dinanzi ad un giudice che statuisce in materia civile solo i cittadini italiani residenti nella provincia di Bolzano o se tale facoltà debba essere concessa anche ai cittadini italiani che non risiedano in tale provincia o ai cittadini di Stati membri dell’Unione europea diversi dalla Repubblica italiana che risiedano in detta provincia oppure, come nel procedimento principale, ai cittadini di tali Stati membri che non risiedano nella medesima provincia. È vero che, secondo il giudice del rinvio, le disposizioni relative all’uso della lingua tedesca perseguono l’obiettivo di tutelare la minoranza etnica e culturale germanofona che risiede nella provincia di Bolzano. Tuttavia, tale obiettivo non verrebbe affatto scalfito dalla possibilità di applicare la normativa controversa ai cittadini di Stati membri diversi dalla Repubblica italiana che si avvalgano della loro libertà di circolazione.
La Corte risponde che il diritto dell'Unione (più precisamente il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità e la libera circolazione garantita ai cittadini dell'Unione) osta ad una normativa nazionale che, nei processi civili pendenti dinanzi ai giudici di un ente locale determinato dello Stato membro in questione, riconosce il diritto di utilizzare una lingua non ufficiale solo ai cittadini di quest’ultimo Stato residenti in detto ente locale. La Corte ricorda che essa ha già risposto, in occasione della sentenza del 24 novembre 1998, nella causa Bickel e Franz, C-274/96, in senso affermativo a tale questione per quanto riguarda i procedimenti penali celebrati dinanzi ai giudici della provincia di Bolzano. Secondo la Corte le considerazioni che l'hanno condotta a detto risultato si applicano a qualsiasi procedimento giurisdizionale che si svolga nell’ambito dell'ente locale interessato, compresi i processi civili.
Nessuno degli argomenti dedotti dal governo italiano può giustificare la normativa. Quanto all'argomento secondo cui il procedimento verrebbe appesantito se i cittadini dell'Unione potessero servirsi del tedesco, la Corte rileva che, secondo le informazioni fornite dal Landesgericht Bozen, i giudici della provincia di Bolzano sono in grado di celebrare i processi indifferentemente in italiano e/o in tedesco. Quanto ai costi supplementari che deriverebbero all'Italia dall'applicazione di tale regime linguistico ai cittadini dell'Unione, la Corte ricorda che motivi di natura puramente economica non possono giustificare una limitazione di una libertà fondamentale garantita dal diritto dell’Unione.

 

Sentenze del 12 marzo nelle cause C-456/12 e C-457/12 O., B., S. e G. / Minister voor Immigratie, Integratie en Asie

«Direttiva 2004/38/CE – Articolo 21, paragrafo 1, TFUE – Diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri – Aventi diritto – Diritto di soggiorno del cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, nello Stato membro di cui tale cittadino possiede la cittadinanza – Ritorno del cittadino dell’Unione in detto Stato membro dopo soggiorni di breve durata in un altro Stato membro»

Il Raad van State olandese (Consiglio di Stato), con due distinti rinvii pregiudiziali, ha investito la Corte di giustizia di quattro cause concernenti il diniego formulato dalle autorità olandesi di concedere un diritto di soggiorno al cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino olandese dell’Unione. Quanto alla causa C-456/12, essa riguarda il diniego del diritto di soggiorno in una situazione in cui il cittadino dell’Unione (olandese) ritorna nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza dopo aver effettuato, con il familiare, cittadino di paese terzo, alcuni soggiorni di breve durata in un altro Stato membro. Il giudice del rinvio chiede alla Corte se il diritto dell’Unione conceda a cittadini di un paese terzo, familiari di cittadini dell’Unione, il diritto di soggiorno nello Stato membro di cui i cittadini posseggono la cittadinanza. La Corte ricorda anzitutto che l’articolo 21 TFUE e la direttiva 2004/38 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, non assicurano nessun diritto di soggiorno autonomo ai cittadini di paesi terzi. Gli eventuali diritti di soggiorno conferiti loro sono diritti derivati dall’esercizio della libertà di circolazione da parte di un cittadino dell’Unione. Essa poi constata che la direttiva non conferisce nessun diritto di soggiorno derivato al cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione il quale soggiorni nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza. Infatti, essa si applica solo quando un cittadino si reca o soggiorna in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza. Sul problema se l’articolo 21 TFUE conceda un siffatto diritto di soggiorno derivato, la Corte spiega che il diniego di riconoscere un diritto di soggiorno derivato a favore del cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, può ledere il diritto alla libera circolazione del cittadino dell’Unione, garantito da questa disposizione del trattato. Nel caso di specie, quando, ai sensi e nel rispetto delle disposizioni della direttiva relative a un diritto di soggiorno di durata superiore a tre mesi, un cittadino dell’Unione ha soggiornato effettivamente in un altro Stato membro e, in tale occasione, in detto Stato ha sviluppato o consolidato la sua vita familiare, l’efficacia pratica dell’articolo 21 TFUE impone che la vita familiare condotta nello Stato membro ospitante possa continuare quando il cittadino fa ritorno nel proprio Stato di origine. Ciò implica che in una situazione siffatta al familiare, cittadino di un paese terzo venga riconosciuto un diritto di soggiorno derivato. Le condizioni per tale concessione del diritto di soggiorno derivato non dovrebbero essere, in linea di principio, più rigorose di quelle previste dalla direttiva per la concessione di un diritto di soggiorno derivato al cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione che abbia esercitato il suo diritto alla libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza. Per quanto riguarda, poi, il problema di accertare se l’effetto cumulativo di numerosi soggiorni di breve durata nello Stato membro ospitante possa far sorgere un diritto di soggiorno derivato in capo al familiare, cittadino di un paese terzo, quando il cittadino dell’Unione fa ritorno nel suo Stato di origine, la Corte ricorda che solo un soggiorno che soddisfi le disposizioni della direttiva relative a un soggiorno di durata superiore a tre mesi fa sorgere un diritto di soggiorno derivato al ritorno. Pertanto, la Corte dichiara che, in una situazione in cui un cittadino dell’Unione abbia sviluppato o consolidato, ai sensi e nel rispetto delle disposizioni della direttiva 2004/38 relative a un diritto di soggiorno di durata superiore a tre mesi, una vita familiare con il cittadino di un paese terzo nel corso di un soggiorno effettivo in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza, le disposizioni della medesima direttiva si applicano per analogia quando detto cittadino dell’Unione ritorni, con il familiare interessato, nel proprio Stato membro di origine. Per quanto concerne la causa C-457/12, essa riguarda il diniego, da parte delle autorità olandesi, del diritto di soggiorno al familiare di cittadini olandesi. Tuttavia, a differenza della causa C-456/12, i cittadini dell’Unione interessati non hanno soggiornato con un loro familiare in uno Stato membro diverso da quello di cui essi possiedono la cittadinanza. Nel caso di specie, il Raad van State desidera sostanzialmente sapere se il diritto dell’Unione attribuisca un diritto di soggiorno derivato al cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, quando il cittadino risiede nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza ma si reca regolarmente in un altro Stato membro a causa delle sue attività professionali. La Corte chiarisce che l’efficacia pratica del diritto di libera circolazione dei lavoratori può imporre che venga riconosciuto un diritto di soggiorno derivato in base all’articolo 45 TFUE al cittadino di un paese terzo, familiare del lavoratore, cittadino dell’Unione, nello Stato membro di cui quest’ultimo possiede la cittadinanza. Pertanto, secondo la Corte spetta al giudice del rinvio verificare se, in ciascuna delle ipotesi di cui alla causa C-457/12, la concessione di un diritto di soggiorno derivato al cittadino del paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, sia necessaria al fine di garantire a quest’ultimo l’effettivo esercizio dei diritti che egli ricava dall’articolo 45 TFUE.

 

Sentenza del 30 gennaio nella causa C-285/12 Aboubacar Diakité / Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides

«Direttiva 2004/83/CE – Norme minime sull’attribuzione dello status di rifugiato o di beneficiario della protezione sussidiaria – Persona ammissibile alla protezione sussidiaria – Articolo 15, lettera c) – Minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato – Nozione di “conflitto armato interno” – Interpretazione autonoma rispetto al diritto internazionale umanitario – Criteri di valutazione»
Nel 2008 e nel 2010 il sig. Diakité, un cittadino guineano, ha chiesto di poter beneficiare della protezione internazionale in Belgio, affermando di essere stato vittima di atti di violenza in Guinea a causa della sua partecipazione ai movimenti di protesta contro il potere insediato. Il riconoscimento della protezione sussidiaria gli veniva negato con il motivo che non vi era in Guinea un «conflitto armato interno» quale inteso nell’ambito del diritto internazionale umanitario. In tale contesto, il Conseil d’État (Belgio) ha sollevato dinanzi alla Corte di giustizia la questione se la nozione di «conflitto armato interno», prevista dalla direttiva, debba essere interpretata autonomamente rispetto alla definizione accolta nel diritto internazionale umanitario e, in caso di risposta affermativa, secondo quali criteri debba essere valutata.
Infatti, la Direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, protegge non solo le persone cui è possibile riconoscere lo status di rifugiato, bensì anche quelle che non possono beneficiare di tale status, ma rispetto alle quali sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornassero nel paese di origine o nel quale avevano precedentemente la dimora abituale, correrebbero un rischio effettivo di subire un grave danno (regime di protezione sussidiaria).
Con riferimento alla questione se l’esistenza di un conflitto armato interno debba essere valutata in base ai criteri stabiliti dal diritto internazionale umanitario, la Corte constata che la nozione di «conflitto armato interno» è propria della direttiva e non trova diretta rispondenza nel diritto internazionale umanitario, che si limita a contemplare i «conflitti armati che non presentano carattere internazionale». Infatti, il legislatore dell’Unione ha utilizzato l’espressione «conflitto armato interno o internazionale», che differisce dalle nozioni poste a fondamento del diritto internazionale umanitario, il quale distingue, da un lato, i «conflitti armati internazionali» e, dall’altro, i «conflitti armati che non presentano carattere internazionale».
Peraltro, poiché il regime della protezione sussidiaria non è previsto nel diritto internazionale umanitario, quest’ultimo non identifica le situazioni in cui una tale protezione è necessaria e istituisce meccanismi di protezione chiaramente distinti da quello previsto dalla direttiva. Alla luce di queste considerazioni, si deve costatare che il legislatore dell’Unione ha auspicato concedere la protezione sussidiaria non soltanto in caso di conflitto armato internazionale e di conflitto armato che non presenta carattere internazionale, così come definiti dal diritto internazionale umanitario, ma, altresì, in caso di conflitto armato interno, purché tale conflitto sia caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata. Non è necessario, a tal proposito, che sussistano tutti i criteri ai quali si riferiscono l’articolo 3 comune alle quattro convenzioni di Ginevra e l’articolo 1, paragrafo 1, del protocollo aggiuntivo II dell’8 giugno 1977, che sviluppa e integra tale articolo.
Altresì, il diritto internazionale umanitario è in stretta correlazione con il diritto penale internazionale, mentre una tale relazione è estranea al meccanismo di protezione previsto dalla direttiva. La Corte ne trae la conclusione che la nozione di «conflitto armato interno» dev’essere interpretata in modo autonomo. In assenza di qualsivoglia definizione, all’interno della direttiva, della nozione di conflitto armato interno, la determinazione del significato e della portata di questi termini deve essere stabilita, conformemente ad una consolidata giurisprudenza della Corte, sulla base del loro significato abituale nel linguaggio corrente, prendendo in considerazione il contesto nel quale sono utilizzati e gli obiettivi perseguiti dalla normativa in cui sono richiamati (sentenze del 22 dicembre 2008, Wallentin-Hermann, C‑549/07, Racc. pag. I‑11061, punto 17, e del 22 novembre 2012, Probst, C‑119/12, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 20).
Guardando, nello specifico, a tale autonoma nozione, la Corte precisa che l’espressione «conflitto armato interno» si riferisce a una situazione in cui le forze governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o nella quale due o più gruppi armati si scontrano tra loro. Ai sensi della direttiva in esame, l’esistenza di un conflitto armato può portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente se il grado di violenza indiscriminata raggiunge un livello tale che il richiedente, per la sua sola presenza sul territorio di cui trattasi, corre un rischio effettivo di subire una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona. Di conseguenza, secondo la Corte la constatazione dell’esistenza di un conflitto armato non dev’essere necessariamente subordinata all’intensità degli scontri armati, al livello di organizzazione delle forze armate o alla durata del conflitto.
Quanto alla nozione di danno grave, che figurava all’articolo 15, lettera c), della direttiva in esame, mentre nella proposta della Commissione, che ha portato all’adozione della direttiva [COM(2001) 510 def.], la definizione di danno grave prevedeva che la minaccia contro la vita, la sicurezza o la libertà del richiedente potesse configurarsi sia nell’ambito di un conflitto armato, sia nell’ambito di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti dell’uomo, il legislatore dell’Unione ha, invece, optato per la codifica della sola ipotesi della minaccia alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Inoltre, occorre rammentare che l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’articolo 15, lettera c), della direttiva a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (v., in questo senso, sentenza Elgafaji, cit., punto 43).
Di conseguenza, così come rilevato dall’avvocato generale al punto 92 delle conclusioni, la constatazione dell’esistenza di un conflitto armato non deve essere subordinata ad un livello determinato di organizzazione delle forze armate presenti o ad una durata particolare del conflitto, dal momento che la loro esistenza è sufficiente affinché gli scontri in cui sono impegnate tali forze armate generino il livello di violenza menzionato al punto 30 della presente sentenza dando, così, origine ad un effettivo bisogno di protezione internazionale del richiedente che corre un rischio fondato di subire una minaccia grave e individuale alla propria vita o persona. Pertanto, il già citato articolo 15, lettera c), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, deve essere interpretato nel senso che si deve ammettere l’esistenza di un conflitto armato interno, ai fini dell’applicazione di tale disposizione, quando le forze governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o quando due o più gruppi armati si scontrano tra loro, senza che sia necessario che tale conflitto possa essere qualificato come conflitto armato che non presenta un carattere internazionale ai sensi del diritto internazionale umanitario e senza che l’intensità degli scontri armati, il livello di organizzazione delle forze armate presenti o la durata del conflitto siano oggetto di una valutazione distinta da quella relativa al livello di violenza che imperversa nel territorio in questione.

 

GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

Violazione dell’articolo 2 CEDU

Sentenza del 24 aprile, I Sezione, Perevedentsevy v. Russia, domanda n. 39583/05

I ricorrenti, Vera Perevedentseva e Sergey Perevedentsev, sono cittadini russi e vivono a Snovo - Zdorovo , un villaggio situato nella regione di Ryazan ( Russia). Il caso riguarda la morte del loro figlio diciannovenne durante il servizio militare.
Il 16 aprile 2004 il figlio dei ricorrenti, Mikhail Perevedentsev, che stava facendo il servizio militare obbligatorio di due anni, è stato trovato morto con una corda intorno al collo. All’esito delle indagini svolte è stato dichiarato che egli si era suicidato e il procedimento relativo alla morte del figlio dei ricorrenti è stato definitivamente abbandonato nell'ottobre 2010 sulla base del fatto che non vi era alcuna prova della commissione di un qualsiasi reato.
Invocando l'articolo 2 ( diritto alla vita ) e l'articolo 13 (diritto ad un ricorso effettivo ), i ricorrenti affermano di non credere che loro figlio si sia suicidato e sostengono che le molestie cui sono soliti i soldati più anziani dell’esercito - attraverso un sistema chiamato dedovshchina - che vanno dai pestaggi alle estorsioni , anche tramite la tecnica della privazione del sonno, devono aver giocato un ruolo nella morte di loro figlio. Essi sostengono, inoltre, che le autorità avevano omesso di condurre un'indagine efficace sulle accuse o su qualsiasi potenziale coinvolgimento dell'esercito nella morte di loro figlio.
La Corte, in via preliminare, rileva che la legge nazionale in forza all'epoca dei fatti dispone che il capo di una unità militare è personalmente responsabile di fronte allo Stato per tutti gli aspetti della vita e del funzionamento dell'unità militare, delle sue suddivisioni nonché di ogni soldato. È inoltre previsto che il comandante militare del gruppo sia responsabile , tra le altre cose , del mantenimento di standard elevati per quanto riguarda il benessere morale e psicologico del personale sotto il suo comando. Al riguardo, egli è tenuto ad avere familiarità con le caratteristiche personali e psicologiche dei suoi subordinati. La Corte ha inoltre osservato che le conclusioni della perizia psicologica e psichiatrica post mortem svolte sul figlio dei ricorrenti stabiliscono che questi aveva processi mentali immaturi e difficoltà nell’adattarsi alle nuove circostanze, che era sensibile, emotivo e incline a drammatizzare gli eventi, nonché che soffriva di umore depresso.
Secondo il documento redatto il 16 febbraio 2004 per ordine del comandante delle XXII guardie dell'esercito, tra le cause dell'incidente in esame erano indicate, in particolare, gravi omissioni nel lavoro del comandante del gruppo cui il figlio dei ricorrenti apparteneva, di studiare le caratteristiche individuali dei soldati e la mancata adozione delle misure necessarie per il monitoraggio psicologico dei soldati che avevano bisogno di una maggiore assistenza psicologica e pedagogica. Tutto ciò è avvenuto nel contesto della pratica nota come “dedovshchina”, da cui discendono gravi abusi dei diritti umani nella forza armata russa.
La Corte, tenuto conto di quanto precede, ritiene che le autorità nazionali siano state a conoscenza delle difficoltà psicologiche del figlio dei ricorrenti, ma abbiano mancato di determinarne la gravità, tale da mettere in pericolo la sua vita e di adottare misure adeguate a evitare quel rischio. Pertanto, vi è stata una violazione dell'articolo 2 della Convenzione da un punto di vista sostanziale.
La Corte ribadisce, poi, che quando vi sono decessi in circostanze tali da potenzialmente impegnare la responsabilità dello Stato, l'articolo 2 implica un obbligo dello Stato di garantire, con tutti i mezzi a disposizione, una risposta adeguata - giudiziaria o di altra natura - in modo da attuare la tutela del diritto alla vita è attuata e da reprimere e punire eventuali violazioni di tale diritto. La Corte rileva inoltre che, in caso di omicidio, l'interpretazione dell'articolo 2, che comporta un obbligo di condurre indagini ufficiali, non è solo giustificato dal fatto che tali accuse di reato danno solitamente luogo a responsabilità penale, ma anche perché spesso, in pratica, le vere circostanze della morte sono, o possono essere, in gran parte ricondotte ai margini di conoscenza dei funzionari statali o dell’autorità. Di conseguenza, se è in gioco un obbligo positivo di salvaguardare la vita delle persone in custodia o nell’esercito, ai sensi dell'articolo 2 deve essere svolta un'indagine ufficiale indipendente e imparziale che soddisfa alcuni requisiti minimi per quanto riguarda l'efficacia dell’autorità. Anzitutto, la Corte ritiene che, nel caso di specie, sia stato soddisfatto il requisito dell’indipendenza dell’indagine svolta (l’indagine è stata svolta dalla Procura militare, che non dipende né è collegata in alcun modo all’unità cui apparteneva il figlio dei ricorrenti). Quanto, poi, al requisito della tempestività delle indagini, la Corte ritiene che esso non sia stato soddisfatto, vista la durata complessiva del procedimento e il fatto che vi sono stati segnati notevoli ritardi, tutti per motivi non spiegati dal governo. Per quanto riguarda, inoltre, la completezza delle indagini, la Corte rileva un certo numero di discrepanze ed omissioni nelle indagini che minano la loro plausibilità e destano serie preoccupazioni sulla buona fede delle autorità coinvolte e la genuinità dei loro sforzi per stabilire la verità.
La Corte ha, poi, sottolineato in molte occasioni che il coinvolgimento dei parenti prossimi nelle indagini serve a garantire la responsabilità delle autorità pubbliche e il controllo pubblico delle loro azioni nel corso delle indagini. Il diritto della famiglia del defunto la cui morte è sotto indagine a partecipare al procedimento esige che le procedure adottate garantiscano la tutela necessaria dei loro interessi, che possono essere direttamente in conflitto con quelli delle forze di polizia o di sicurezza Implicate negli eventi. Nel caso in esame, i ricorrenti avevano un forte e legittimo interesse ad intervenire nelle indagini, tale da riconoscere loro lo status ufficiale di vittima nel procedimento penale, un ruolo procedurale che avrebbe loro garantito il diritto di intervenire nel corso dello stesso. Tuttavia, la Corte ritiene che, nella fattispecie, gli interessi dei ricorrenti come parenti più prossimo del defunto non sono stati adeguatamente protetti e che le indagini non hanno garantito un appropriato livello di controllo pubblico.
In conclusione, visto il modo in cui si è indagato sulla morte del figlio dei ricorrenti, la durata delle indagini e la completa esclusione dei ricorrenti dalle stesse, la Corte ritiene che le indagini non siano state "efficaci", con violazione, pertanto, dell'articolo 2 della Convenzione per tali aspetti procedurali. Ai ricorrenti sono riconosciuti EUR 40.000 a titolo di danni non patrimoniali, nonché EUR 6.380 a titolo di costi e spese.

Sentenza del 17 aprile, V Sezione, Paposhvili v. Belgio, domanda n. 41738/10

Il ricorrente è un cittadino georgiano, nato nel 1958, che vive a Bruxelles. Il caso in questione riguarda la decisione di rinviare il richiedente in Georgia con divieto di entrare nel territorio belga. Il sig. Paposhvili è arrivato in Belgio il 25 novembre 1998, assieme a sua moglie e al figlio di sua moglie, che aveva sei anni. La coppia poi ha avuto un figlio nell'agosto 1999 e un altro nel luglio 2006. Tra il 1998 e il 2007, il sig. Paposhvili è stato condannato in varie occasioni, in particolare per rapina e partecipazione a un'organizzazione criminale. Durante la sua permanenza in carcere, gli sono state diagnosticate varie patologie, tra cui una forma grave di leucemia linfocitica cronica e la tubercolosi, e ha ricevuto le cure dei servizi ospedalieri.
Sono state rifiutate varie richieste di regolarizzazione per motivi eccezionali o per ragioni mediche.
Nell’agosto 2007, il Ministero dell’Interno ha ordinato la sua espulsione, con divieto di rientrare nel territorio belga per dieci anni a causa del pericolo che egli rappresentava per l'ordine pubblico. Il decreto è entrato in vigore una volta scontata la pene, tuttavia non è stato concretamente eseguito perché il sig Paposhvili stava seguendo cure mediche. Il 7 luglio 2010, l’Ufficio per stranieri ha emesso un ordine di lasciare il territorio e il ricorrente è stato trasferito in un centro di detenzione per immigrati clandestini in attesa del suo rimpatrio in Georgia.
Il 23 Luglio 2010, il signor Paposhvili ha presentato ricorso alla Corte dei diritti dell'uomo per la concessione della sospensione temporanea della sua rimozione ai sensi dell'articolo 39 del regolamento della Corte, che è stata concessa. Nel novembre 2009, la moglie ha ottenuto per sé e per i suoi tre figli un permesso di soggiorno illimitato, mentre l’ordine di espulsione del marito è stato prorogato più volte.
Basandosi sugli articoli 2 ( diritto alla vita ) e 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), il ricorrente ha sostenuto di essere esposto, se deportato in Georgia, a un rischio reale di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e a morte prematura per il fatto che le cure mediche di cui ha bisogno non sono ivi disponibili o accessibili. Invocando, poi, l'articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) lamenta che il suo ritorno in Georgia con il divieto di ingresso in Belgio per 10 anni comporterebbe una separazione dalla famiglia, che è, invece, autorizzata a risiedere in Belgio.
La Corte, con la sentenza in esame, non ha, però, riscontrato alcuna violazione degli articoli della Convenzione citati dal ricorrente.
Da un lato, la Corte rammenta che il fatto che, a seguito di espulsione, il ricorrente debba affrontare un grave deterioramento della sua situazione, segnatamente delle cure mediche che riceve e, quindi, una riduzione significativa dell'aspettativa di vita, non è sufficiente a costituire una violazione dell'articolo 3. Secondo la Corte, infatti, devono sussistere circostanze umanitarie ancora più convincenti. Nel caso di specie, il ricorrente soffre di una malattia incurabile e fatale, la leucemia linfatica cronica, nonché di altre malattie. È, però, clinicamente certificato ad oggi che le condizioni del richiedente sono stabilizzate e che, quindi, non vi è alcuna minaccia imminente per la sua vita ed è in grado di viaggiare. Secondo le informazioni fornite dal governo della Georgia e le fonti consultate dalla Corte d'ufficio, in Georgia si trovano farmaci per stabilizzare la leucemia ed i trattamenti correlati alle altre patologie sofferte dal ricorrente, anche se, a causa della mancanza di risorse, non tutte le persone che ne hanno bisogno possono avere accesso a tutti questi farmaci e trattamenti. Sembra, però, che il richiedente abbia un fratello in Georgia che possiede un terreno, pertanto è improbabile che questi venga lasciato senza risorse.
Dall’altro, la Corte riconosce, che il solo mantenimento di contatti regolari potrebbe non essere sufficiente a soddisfare gli " interessi " dei bambini, qualora il padre fosse rimpatriato in Georgia. Il richiedente è infatti affetto da diverse malattie gravi, tra cui la leucemia linfocitica cronica. Questo contesto particolare potrebbe determinare la moglie del richiedente a prendere la decisione di lasciare temporaneamente il Belgio, assieme ai suoi figli, per stabilirsi per un po’ in Georgia. Tuttavia, pur non potendo sottovalutare le difficoltà che implicherebbe una tale decisione per la famiglia, la Corte non ritiene, soprattutto per quanto riguarda la natura e la gravità dei reati commessi dal ricorrente e il fatto che il legame con il paese d'origine non è rotto, che sussistano quelle circostanze eccezionali che richiederebbero che le autorità belghe rinunciassero al rimpatrio del ricorrente e regolarizzassero il suo soggiorno.

Sentenza del 17 aprile, V Sezione, Guerdner e a. v. Francia, domanda n. 68780/10

I ricorrenti sono dodici cittadini francesi che sono nati tra il 1958 e il 2007 e appartengono ad una comunità di gente di viaggio. Il caso riguarda la morte di J. Guerdner, familiare dei ricorrenti, che era stato presi in custodia e ucciso da un poliziotto mentre cercava di fuggire. Nel maggio 2008, J. Guerdner è stato arrestato e preso in custodia nei locali della gendarmeria di Brignoles a seguito di un'indagine per rapina, banda armata e sequestro di persona. Dopo un'udienza, egli riuscì ad aprire una finestra e a saltare fuori dall'edificio dove era detenuto. Un poliziotto ha sparato più volte nella sua direzione e J. Giuseppe morì poco dopo per le ferite riportate. In una sentenza del 17 settembre 2010 , la Corte d'assise ha assolto il poliziotto perché il reato era prescritto o autorizzato dalla legge o dai regolamenti.
Invocando l'articolo 2 (diritto alla vita ), i ricorrenti sostengono che il loro parente è stato ucciso in modo ingiustificato e non vi sono state né indagini indipendenti né un giusto processo sulle circostanze della morte.
Ad avviso della Corte, nel caso di specie non vi è stata violazione dell’articolo 2 della C.E.D.U. dal punto di vista sostanziale, poiché l’uso della forza in un caso del genere è previsto dal quadro normativo. Tuttavia, tale violazione si è consumata, sempre sul piano sostanziale, a motivo del ricorso ad un tipo di forza “mortale”. Infatti, la Corte ha rilevato che le altre opzioni erano disponibili al poliziotto che cercava di arrestare Joseph Guerdner, invece di aprire il fuoco. A questo proposito, essa osserva che il tempo necessario per scendere le scale dal luogo in cui il poliziotto si trovava era stimato in tredici secondi e che molti poliziotti erano presenti al momento dei fatti, il che avrebbe consentito un pronto inseguimento del fuggitivo. La Corte rammenta che il quadro giuridico francese sull'uso della forza è coerente con la frase "assolutamente necessario" di cui all'articolo 2, § 2 della Convenzione e che lo Stato convenuto è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti ai sensi di tale articolo a causa della forza manifestamente eccessiva usata contro J. Guerdner.

Sentenza del 15 aprile, II Sezione, Cülaz e a. v. Turchia, domande n. 7524/06 e 39046/10

I ricorrenti sono 18 cittadini turchi, che vivono a Silopi (Turchia), ad eccezione di uno che vive a Bruxelles (Belgio). Il caso riguarda parenti dei ricorrenti che sono stati arrestati e portati alla Stazione di polizia di Görümlü. Da allora le loro famiglie non hanno avuto notizie. Durante la notte del 13-14 giugno 1993 c’è stata uno scontro armato nei pressi della stazione di polizia di Görümlü tra i membri del PKK e le forze di sicurezza. Il villaggio di Selçik, a diversi chilometri di distanza, è stato distrutto dalle forze armate e gli sono stati abitanti costretti a fuggire. Il 14 giugno 1993 i parenti dei ricorrenti sono stati arrestati di fronte gli abitanti del villaggio e presi in custodia presso la Stazione di polizia di Görümlü. I ricorrenti hanno chiesto senza successo notizie dei loro parenti dopo il loro arresto, ma senza successo.
Il 19 luglio 1993, su iniziativa dell'avvocato Tahir Elci, l'organizzazione non governativa Amnesty International ha lanciata una campagna riguardante le persone scomparse e prese in custodia a Görümlü nel giugno 1993. In seguito ad prima denuncia presentata da una delle ricorrenti nel dicembre 1993, si è arrivati ad una sentenza di non luogo a procedere nel settembre 1995.
Nel mese di giugno 2003, otto dei ricorrenti hanno presentato una nuova denuncia in relazione alle sparizioni. Nell'agosto 2009 sono state aperte ulteriori indagini in seguito alla scoperta di nuove prove, ed è stato avviato un procedimento penale contro i membri delle forze armate, alcuni dei quali sono stati accusati di omicidio. I procedimenti sono tuttora pendenti dinanzi alla Corte d’Assise di Ankara.
Basandosi sugli articoli 2 ( diritto alla vita ) , 5 ( diritto alla libertà e alla sicurezza ) e 13 ( diritto ad un ricorso efficace) , i ricorrenti sostengono che il loro parenti siano scomparsi mentre erano in custodia delle forze armate.
La Corte ritiene che, nel caso di specie, vi sia stata soltanto una violazione dell’articolo 2 CEDU, dal punto di vista sia sostanziale che processuale. In particolare, la Corte ha verificato che i fatti delle vicende in esame concretano una violazione del diritto alla vita dei ricorrenti e una violazione da parte dello Stato convenuto, sempre ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione, di condurre un'indagine adeguata ed efficace sui fatti. Anzitutto, la Corte rileva che i parenti dei ricorrenti sono stati visti per l'ultima volta il 14 giugno 1993, quindi oltre 20 anni fa, e non sono state date informazioni su di loro. Pertanto, ad avviso della Corte i parenti dei ricorrenti sono scomparsi in circostanze tali da mettere la loro vita in pericolo e che essi devono ormai essere presunti morti. La Corte rileva, poi, che 20 anni dopo gli eventi in questione vari procedimenti penali sono stati avviati nei confronti di sei soldati presumibilmente coinvolti nella morte dei ricorrenti e che attualmente è ancora pendente un giudizio dinanzi alla corte d'assise di Ankara. A questo proposito, si ricorda che il passaggio del tempo erode inevitabilmente la quantità e la qualità delle prove disponibili, e che il sospetto di una mancanza di diligenza mette in dubbio la buona fede degli inquirenti. Pertanto, ad avviso della Corte vi è, nel caso di specie, una violazione dell’articolo 2 CEDU anche dal punto di vista processuale, posto che lo Stato convenuto ha mancato di adoperarsi per svolgere indagini adeguate ed efficaci sulle tragiche vicende de quo.


Violazione dell’articolo 3 CEDU

Sentenza del 22 aprile, G.C. v. ITALIA, domanda n. 73869/10

Il ricorrente, G.C., è un cittadino italiano nato nel 1972 ed è attualmente un detenuto del carcere di Bellizzi Irpino (Italia). Il caso riguarda le condizioni di detenzione che egli considera degradanti a fronte del suo stato di salute.
Il sig. G.C. è stato arrestato nel febbraio 2009 e dall’8 ottobre di tale anno è detenuto a Bellizzi Irpino, dove sta scontando una pena detentiva di dieci anni. Al suo arrivo in carcere, ha informato il personale di essere stato operato per emorroidi nel 2007 e di aver da allora sofferto di incontinenza. A suo parere, tale condizione giustificava il suo collocamento in una cella singola dotata di una toilette, nonché la possibilità di fare la doccia ogni giorno. Tuttavia, egli è stato collocato in una cella con altri detenuti, dotata di un solo bagno.
Il sig. G.C. ha presentato due richieste, una per la concessione del beneficio della detenzione domiciliare e l'altro per ottenere la sospensione della pena per motivi di salute. Tali domande sono state respinte, rispettivamente, nell’ottobre e nel dicembre 2011. Dopo che aveva tentato il suicidio nel 2009, il signor G.C. è stato posto in isolamento per motivi di salute sotto la sorveglianza di uno psichiatra, fino al suo trasferimento in infermeria nel luglio 2010.
Nel marzo 2012 ha tentato il suicidio una seconda volta ed è, quindi, stato trasferito in una cella singola. Durante questi periodi egli sostiene di non essere riuscito a prendere parte ad attività sociali o a seguire corsi nella prigione.
Successivamente, da agosto a novembre 2012 ha ricevuto cure di chinesiterapia, a seguito delle quali afferma di essere stato guarito.
Invocando l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il signor G.C. lamenta le condizioni disumane della sua detenzione e il fatto di non aver ricevuto in carcere cure adeguate a fronte delle sue condizioni di salute. Nelle sue osservazioni supplementari del 17 gennaio 2014, il governo italiano ha sollevato per la prima volta un motivo di non esaurimento delle vie di ricorso interne, in cui si sostiene che, al momento della presentazione della domanda, il ricorrente non aveva ancora ricevuto una decisione sulla compatibilità delle condizioni della sua detenzione con il suo stato di salute, e che, inoltre, non aveva impugnato l'ordinanza del Tribunale di Napoli datata 20 dicembre 2011. La Corte ricorda che, ai sensi dell'articolo 55 del Regolamento, se la Parte contraente convenuta intende sollevare un'eccezione di irricevibilità, deve farlo, a condizione che la natura dell'eccezione e le circostanze consentano, in commenti scritti o orali sulla ricevibilità del ricorso presentato da esso (NC c . Italia [ GC ], no 24952/94 , § 44 , CEDU 2002 - X) osservazioni.
La Corte osserva che, nel caso di specie, il governo italiano non ha fatto valere il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne nelle sue osservazioni del 2 ottobre 2013 sulla ricevibilità e sul merito della causa, limitandosi a sollevare tale questione in modo esplicito nelle sue ulteriori osservazioni. Pertanto, al governo italiano era preclusa la possibilità di sollevare detta eccezione nelle sue osservazioni supplementari del 17 gennaio 2014 già richiamate.
Nel merito, il ricorrente ritiene di non aver ricevuto cure adeguate alle sue condizioni di salute. Egli sostiene che l'amministrazione penitenziaria non gli ha fornito, in particolare, i necessari pannolini per l'incontinenza. Egli sostiene di aver informato il personale al suo arrivo presso il carcere di Bellizzi Irpino, e che – a suo dire – gli sarebbe stato detto che sarebbe stato collocato in una cella singola equipaggiata di servizi igienici per il lavaggio quotidiano. Tuttavia, così non è avvenuto: è stato collocato dal 9 ottobre al 5 novembre 2009 in una cella comune con un unico luogo di comfort con altri sei detenuti e, successivamente, di aver condiviso un'altra cella con un solo detenuto, dotata, però, di solo bagno senza doccia, bidet e acqua calda.
Egli ricorda, in particolare, di essere stato costretto a informare i suoi compagni di cella della sua incontinenza e che, a causa di questi problemi, è stato umiliato a tal punto da aver tentato il suicidio in data 20 novembre 2009. Egli ha altresì trascorso sette giorni in isolamento in una cosiddetta cella "liscia", priva di mobili ad eccezione di un materasso e di una coperta, e di essere stato visitato da uno psichiatra soltanto il giorno del tentativo di suicidio. La visita programmata per il giorno seguente è stata rinviata al 27 novembre 2009 e in tale data lo psichiatra aveva raccomandato il suo trasferimento nella zona comune della prigione. Altresì, il ricorrente rammenta che il Comitato per la prevenzione della tortura (il " CPT " ) , nella relazione sulla sua visita in Italia dal 14 al 18 giugno 2010 ( punto 27), raccomandava di non mettere i detenuti in celle di tal tipo dopo un tentativo di suicidio, in quanto un provvedimento del genere potrebbe essere visto come una punizione.
Nella sua sentenza, la Corte ricorda, anzitutto, che le condizioni di detenzione di una persona malata devono garantire la tutela della salute, tenuto conto delle contingenze ordinarie e ragionevoli della detenzione. Se non possiamo dedurre un obbligo generale di rilasciare o trasferire un detenuto in un ospedale civile , anche se soffre di una malattia particolarmente difficile da trattare ( Mouisel , § 40 malattia , e Tellissi c. Italia, n. 15434/11 , § 27, 5 marzo 2013), l'articolo 3 della convenzione esige in ogni caso che lo Stato tuteli l'integrità fisica delle persone private della libertà. La Corte non può escludere che, in circostanze particolarmente gravi, una buona amministrazione della giustizia possa richiedere che siano adottate misure di carattere umanitario per contrastare una tale situazione (Matencio c. Francia , n. 58749 / 00 , § 76 , 15 Gennaio 2004 , e Sakkopoulos c . Grecia, n. 61828 / 00 , § 38 , 15 gennaio 2004).
Applicando questi principi, la Corte ha già concluso che la detenzione per un periodo prolungato di una persona di età avanzata e malata può rientrare nell'ambito di applicazione della tutela dell'articolo 3 della Convenzione ( Papon c . Francia ( n. 1) ( dicembre ), n. 64.666 / 01 , CEDU 2001 - VI , Sawoniuk c . Regno Unito ( dicembre ) , n. 63.716 / 00 , CEDU 2001 - VI , ec Priebke . Italia ( dicembre ) , n. 48799/99 , 5 aprile 2001). Tuttavia, la Corte deve esaminare , tre elementi per determinare la compatibilità della detenzione di un soggetto con una condizione di salute grave, vale a dire le condizioni del detenuto, la qualità delle cure e l’opportunità della detenzione in vista dello stato di salute del richiedente ( Farbtuhs c . Lettonia , n. 4672 / 02 , § 53 , 2 dicembre 2004 e Sakkopoulos , sopra citato, § 39 ).
La Corte rileva che il ricorrente non ha sostenuto che la sua salute era incompatibile con la sua detenzione. L'unica doglianza sollevata riguarda l’opportunità delle cure ricevute in prigione, vista la necessità di tutelare la sua integrità fisica (Tellissi, citata supra, § 29).
La Corte ritiene che la mancanza prolungata di cure adeguate alla patologia del ricorrente lo ha posto in una situazione di costante ansia, tale da fargli provare sentimenti di inferiorità e di umiliazione, nonché di essere trattato in modo " degradante " ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione. Anche se in una lettera del 31 maggio 2013, il ricorrente stesso ha ammesso di essere "guarito", la Corte rileva che nessun rimedio è stato offerto per il lungo periodo in cui egli è rimasto in attesa di ricevere cure mediche adeguate. In particolare, agli occhi della Corte, il suicidio tentato nel 2009 è stato direttamente correlato ad un episodio di incontinenza verificatosi nel corso di tale anno e dimostra proprio la sofferenza, l’angoscia e l'umiliazione che il ricorrente provava a causa della sua patologia e delle sue manifestazioni in pubblico.
Pertanto, la Corte ritiene che vi sia stata una violazione dell'articolo 3 della Convenzione a questo proposito.
Quanto alla doglianza del ricorrente basata sullo spazio ristrettissimo a disposizione nelle celle in cui è stato detenuto, la Corte rileva che, se la versione del governo italiano sul numero di occupanti di tali celle è preciso, in nessun momento il ricorrente avrebbe avuto a disposizione uno spazio personale al di sotto della soglia che il predetto CPT ha ritenuto auspicabile per lo spazio collettivo (vale a dire 4 m²). In ogni caso, essa osserva che, anche supponendo che le affermazioni del ricorrente siano corrette, egli avrebbe comunque goduto di un spazio personale non inferiore a 3 m² durante i periodi in questione, pertanto, secondo la giurisprudenza della Corte, non può essere riscontrata una violazione dell'articolo 3 della Convenzione.
Altresì, la Corte rileva che il ricorrente ha lamentato una mancanza di luce, di illuminazione e di riscaldamento nelle celle da lui occupate, nonché un malfunzionamento di alcune strutture sanitarie. Tuttavia, si rileva che egli non ha fornito alcuna prova diretta contestare l'affermazione del governo italiano, secondo cui ogni cella è stata dotata di una grande finestra che consente la circolazione di aria e l’ingresso di luce naturale. Questa affermazione si basa su documenti forniti dall'amministrazione carceraria, comprese le planimetrie. Si rileva inoltre che, per lunghi periodi, al ricorrente è stato permesso di fare la doccia ogni giorno con acqua calda.
Si ritiene, pertanto, che il cattivo funzionamento occasionale delle strutture sanitarie non possa essere considerato come un trattamento contrario all'articolo 3 della Convenzione e che, più in generale, non possa essere constatata nel caso di specie alcuna violazione di detto articolo sotto il profilo dell’allegato sovraffollamento carcerario.
Alla luce delle suesposte considerazioni, la Corte riconosce al sig. G.C. la somma di EUR 20000 a titolo di danno morale, nonché di EUR 5000 a titolo di spese.

Sentenza del 22 aprile, III Sezione, A.C. v. Spagna, domanda n. 6528/11 e altri 29 domande

I ricorrenti sono trenta richiedenti protezione internazionale di origine sahariana. La vicenda riguarda la loro eventuale espulsione dalla Spagna verso il Sahara occidentale, dove essi sostengono che sarebbero esposti ad un trattamento inumano e degradante.
Dopo la fuga da un campo nel Sahara occidentale, violentemente smantellato dalla polizia marocchina a seguito di una manifestazione, i ricorrenti si sono imbarcati in mezzi di fortuna e sono approdati sulle coste delle Isole Canarie tra il gennaio 2011 e l’agosto 2012. Hanno quindi presentato domande di protezione internazionale. Tali richieste sono state respinte una prima volta, quindi una seconda dopo il loro riesame da parte del Ministro degli Interni spagnolo.
I ricorrenti hanno presentato ricorsi amministrativi avverso tali decisioni del ministro dell'Interno, nonché richieste per ottenere la sospensione dell'esecuzione dell’ordine di espulsione. Tali ultime richieste sono state respinte.
Tra il 28 gennaio 2011 e il 1 ° ottobre 2012, i ricorrenti hanno presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo trenta europea, con richieste di misure provvisorie sulla base dell'articolo 39 del Regolamento. Hanno sostenuto di aver subito in passato, durante il loro arresto e durante lo smantellamento del campo, trattamenti inumani da parte delle autorità marocchine in relazione alla loro origine sahariana, oppure hanno sostenuto di sentirsi minacciati e di aver paura di rappresaglie.
La Corte ha deciso di imporre al governo spagnolo di non procedere alla rimozione dei candidati per la durata del procedimento dinanzi ad essa. A seguito del rigetto dei loro contenziosi amministrativi, i ricorrenti hanno presentato ricorso in cassazione alla Corte Suprema. L’esito di tali ricorsi è sconosciuto.
Invocando l'articolo 13 (diritto ad un ricorso effettivo ), in combinato disposto con gli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, i ricorrenti lamentano di non aver potuto far valere dinanzi ai giudici spagnoli i loro motivi fondati sui rischi cui sarebbero esposti se deportati nel Sahara occidentale.
La Corte, dopo aver ricordato i dati due indagini svolte, rispettivamente, da Amnesty International e da Human Rights Watch del 2010 sulla situazione del Sahara occidentale, dichiara l’opportunità di riunire tutti i procedimenti ai fini della decisione nel merito.
Anche se le autorità spagnole sono le uniche competenti a decidere in ultima istanza sull'esistenza o meno di ragioni che ostano alle espulsioni decretate contro i richiedenti, la Corte non esclude che vi siano prove sufficienti per sospendere l'esecuzione della decisione adottata dall'Amministrazione posto che i tribunali nazionali non hanno esaminato nel dettaglio e in profondità la fondatezza delle domande di protezione internazionale presentate dai ricorrenti. Certo, la Corte è consapevole della necessità per gli Stati destinatari di un gran numero di richieste di asilo di disporre delle risorse necessarie per farvi fronte e del rischio di intasamento del sistema. La Corte riconosce che le procedure di asilo accelerate, che hanno adottato molti Stati europei, possono facilitare il trattamento delle richieste abusive o manifestamente infondate. Tuttavia, nel caso di specie, la Corte rileva che l’Audiencia Nacional ha ordinato il 27 gennaio 2011 di sospendere temporaneamente le espulsioni per il tempo necessario ad esaminare la richieste di provvedimenti provvisori. Il giorno seguente, però, l'Audiencia Nacional ha deciso di respingere le domande di sospensione degli ordini di espulsione emessi nei confronti di tali ricorrenti, ritenendo che le osservazioni presentate a sostegno dei loro ricorsi non facevano emergere l'esistenza di situazioni di emergenza particolari che giustificassero una sospensione dell’espulsione dal territorio nazionale.
Pertanto, la Corte rileva che in questo caso la natura accelerata del procedimento non ha consentito ai richiedenti di chiarire questi punti, nell’ambito della loro unica opportunità di sospendere il procedimento di espulsione, non avendo il procedimento di merito, di per sé, effetto sospensivo. Sebbene la Corte riconosca l'importanza di un'azione rapida, essa ritiene che non debba essere privilegiata a scapito dell'efficacia delle garanzie procedurali essenziali per proteggere i richiedenti contro il respingimento. Come l'articolo 6 della Convenzione, l'articolo 13 impone agli Stati contraenti di organizzare i loro sistemi giuridici in modo da soddisfare l’effettività dei ricorsi. In conclusione, a parere della Corte i ricorrenti non disponevano di un rimedio che soddisfacesse i requisiti di cui all'articolo 13 per far valere i loro motivi basati sugli articoli 2 e 3 della Convenzione. Di conseguenza, vi è stata una violazione dell'articolo 13 della Convenzione, in combinato disposto con i predetti articoli 2 e 3.

Sentenza del 22 aprile, III Sezione, Vasile e Victor Gavriliță v. Repubblica di Moldova, domanda n. 22741/06

ll 22 ottobre 2001 è stato emesso un mandato d'arresto contro il primo degli odierni ricorrenti, accusato di aver commesso uno stupro. L’8 aprile 2003 egli è stato arrestato da due poliziotti. Secondo la polizia, il sig. Vasile Gavriliță ha resistito e ha ferito uno di loro con un coltello. Il poliziotto ferito ha usato la sua arma e ha sparato alle gambe del sig. Gavriliță. A parere di quest’ultimo, invece, dopo il suo arresto egli è stato condotto presso la sede battaglione delle forze speciali del Ministero degli Interni, dove sarebbe stato sottoposto a maltrattamenti. In particolare, sarebbe stato appeso ad una barra di ferro, legato mani e piedi, nella posizione di "rondine", quindi collegato ad una sorgente di corrente elettrica. Il tutto sarebbe stato filmato dalla polizia.
In una data imprecisata del mese di aprile 2003, il primo ricorrente è stato trasferito alla sede della Polizia Chişinău generale. Ha sostenuto di essere stato regolarmente condotto, una volta al mese, presso la sede del battaglione delle forze speciali, dove è stato maltrattato e imprigionato in una stanza priva di acqua potabile, di biancheria da letto, materassi, e servizi igienici. Ha perso coscienza più volte ed è stato costretto ad acquistare i farmaci necessari a curare le lesioni provocate da tali abusi. Il 22 Settembre 2004 è stato rilasciato, e l'8 febbraio 2006 è stato nuovamente incarcerato.
Mentre presentava ricorsi avverso tali maltrattamenti e abusi, veniva emessa una prima sentenza di proscioglimento nei suoi confronti dall’accusa di stupro e di aver attentato alla vita di un poliziotto. Successivamente, con sentenza del 1 ° dicembre 2008, la Corte d'Appello ha ribaltato la decisione del tribunale di primo inferiore, dichiarando il sig. Vasile colpevole di aver commesso lo stupro aggravato e aver attentato alla vita di un agente di polizia, con condanna a dodici anni di reclusione. Su ricorso del ricorrente, la Corte Suprema ha confermato il 24 giugno 2009 la sentenza d'appello.
Nel frattempo, tra il 1 ° e il 2 novembre 2005, i ricorrenti e un'altra persona commettevano un furto in una villa alla periferia di Chisinau. Emesso un nuovo mandato di cattura nei confronti di tutti e tre, il secondo ricorrente è stato arrestato il 28 dicembre 2005 in Ucraina da parte di agenti di polizia moldavi, che lo avrebbero legato nel bagagliaio di una macchina e trasportato in Moldova. Egli sostiene di essere stato maltrattato durante il suo arresto e durante il viaggio, di essere stato picchiato nel passaggio attraverso la dogana alla frontiera moldavo –ucraino e che, nei pressi di Căuşeni ( Moldavia), sarebbe stato attaccato al retro di una macchina e trascinato a terra al fine di fargli confessare dove il primo ricorrente aveva nascosto il denaro rubato. Altresì, la polizia gli avrebbe sparato alle gambe con proiettili di gomma e spento le sigarette sulle ferite causate da proiettili, nonché gli avrebbe messo una pistola in bocca, minacciando di ucciderlo. Successivamente, sarebbe stato portato in un garage situato a Chişinău , dove è stato spogliato e picchiato con tubi di gomma. La polizia avrebbe anche cosparso le sue gambe di benzina e minacciato di appiccare il fuoco. Lo stesso giorno, il secondo richiedente è stato portato al generale della polizia Chişinău, dove sostiene di essere stato sottoposto ad abusi. In particolare, egli sarebbe stato folgorato dal filo elettrico collegato alle sue orecchie e dita, mentre egli era legato e sospeso ad un’asta di ferro.
Nonostante un referto medico del 2006, nessun ricorso presentato dal secondo ricorrente avverso tali abusi ha avuto successo.
Con sentenza del 26 dicembre 2006, il tribunale di Botanica dichiarava i ricorrenti colpevoli di aver commesso, il 1 ° e il 2 novembre del 2005, il furto summenzionato e condannava il primo ricorrente ad una pena detentiva di diciassette anni e il secondo ricorrente a dieci anni e mezzo di reclusione. Il 2 luglio 2009 la Corte di Appello di Chisinau ha accolto in parte i ricorsi presentati dai ricorrenti e ridotto le loro pene, condannando il primo ricorrente ad una pena detentiva di sette anni e tre mesi e il secondo ricorrente a sette anni e mezzo.
Basandosi sugli articoli 2, 3, 6 e 8 della Convenzione, i ricorrenti lamentano con il ricorso di cui trattasi i maltrattamenti subiti da parte degli agenti di polizia durante l'arresto e la detenzione, e la mancanza di un effettivo accertamento al riguardo.
Nel frattempo, il 20 settembre 2006, i ricorrenti avevano proposto contro il Ministero delle Finanze, l'Ufficio del Procuratore Generale e il Ministero degli Affari Interni un'azione civile per danni causati dai presunti abusi. È espressamente fatto valere, in particolare, l'articolo 3 della Convenzione. Con sentenza del 4 settembre 2009, il giudice di Rascani ha parzialmente accorso tale ricorso, riconoscendo che tali maltrattamenti erano effettivamente avvenuti e che al primo ricorrente spettava, a tale titolo, la somma di EUR 30, mentre al secondo ricorrente la somma di EUR 60. In seguito a vari ricorsi, il 16 maggio 2012 la Suprema Corte si pronunciava definitivamente al riguardo, riconoscendo a ciascuno dei ricorrenti la somma di EUR 900.
Con la sentenza del 22 aprile, la Corte esamina la questione se l'importo del risarcimento concesso ai ricorrenti fosse opportuno. Essa rileva che l’importo è notevolmente inferiore agli importi assegnati dalla Corte in casi simili (v., ad esempio, le recenti sentenze nelle cause Gorea v. Moldavia, n. 6343/11, § 48, 23 luglio 2013, e Gasanov v. Moldavia, n. 39441/09, § 60, 18 dicembre 2012).
Pertanto, la Corte riconosce che vi è stata, nel caso di specie, violazione dell’articolo 3 della Convenzione, oltre che dell’articolo 5 nei confronti del secondo ricorrente, in quanto detenuto prima che fosse spiccato un regolare mandato di arresto nei suoi confronti. Di conseguenza, l’importo dovuto al primo ricorrente a titolo di danni morali è stabilito in EUR 9000, mentre al secondo ricorrente in EUR 10000, oltre a EUR 140 cadauno per spese, diritti e onorari.

Sentenza del 22 aprile, III Sezione, Axinte v. Roumania, domanda n. 24044/12

Il ricorrente Rileggi Axinte è un cittadino rumeno, attualmente detenuto nella prigione di Bistrita ( Romania). Il caso riguarda la detenzione in carcere in condizioni che egli considera degradanti soprattutto viste le sue condizioni di salute. Dopo essere stato condannato nel 2010 a sei anni di carcere per furto, il sig. Axinte è stato imprigionato in diversi centri di detenzione. Secondo lui, e a differenza da quanto sostenuto dal governo, la maggior parte delle cellule in cui si è svolta la sua detenzione era affollata, angusta, insalubre e dotata di ventilazione difettosa. Inoltre, a causa di problemi dentali, egli aveva presentato una richiesta di protesi dentaria, cura che, però, non gli è ancora stata fornita.
Invocando l'articolo 3 della Convenzione, il sig. Axinte denuncia, quindi, le cattive condizioni di detenzione - compresi i problemi legati al sovraffollamento - e il rifiuto di delle autorità di concedere le cure dentistiche necessarie stante il suo stato di salute.
La Corte ritiene che le condizioni di detenzione in questione, sopportate per oltre cinque anni dal ricorrente, non hanno mancato di sottoporlo ad una difficoltà di un'intensità tale da aver superato il livello di inevitabile sofferenza inerente alla detenzione. Pertanto, in ragione dell’assenza di igiene, di sufficiente spazio personale e di ventilazione, la Corte riconosce che, nel caso di specie, vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione e condanna lo Stato rumeno al pagamento della somma di EUR 2245 a titolo di danni morali.

Sentenza del 17 aprile, I Sezione, Adamantidis v. Grecia, domanda n. 10587/10

Il ricorrente, Athanasios Adamantidis, è un cittadino greco che è nato nel 1984 e vive a Salonicco. Il caso riguarda le condizioni di detenzione nei locali della stazione di polizia di Lefkos Pyrgos e della Direzione generale della polizia di Salonicco. Nel mese di ottobre del 2009, è stato avviato un procedimento penale nei confronti del sig. Adamantidis per tentata rapina. Il giudice ne ha ordinato custodia cautelare. Il ricorrente è stato detenuto presso la stazione di polizia di Lefkos Pyrgos fino al 16 novembre 2009, poi trasferito nei locali della Direzione generale della polizia di Salonicco, dove è rimasto fino al 29 gennaio 2010. Il ricorrente affermato che le condizioni di detenzione nella stazione di polizia Lefkos Pyrgos e nella sede di Salonicco contrastavano con l'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti).
Investita della questione, la Corte dichiara che, nel caso di specie, vi è stata violazione della predetta norma della Convenzione, anche a fronte del fatto che, contrariamente alla legge greca, egli non era stato collocato in un centro di detenzione provvisoria, e che la durata della sua custodia nella stazione di polizia aveva oltrepassato di molto i limiti di tempo necessari al trasferimento di un soggetto da un carcere ad un altro o a far fronte di situazioni eccezionali. Pertanto, la Corte riconosce al ricorrente la somma di EUR 6500 a titolo di danni morali, nonché di EUR 1500 per diritti, onorari e spese.

Sentenza del 17 aprile, I Sezione, Lici v. Grecia, domanda n. 69881/12

Il ricorrente, Albert Lici, è un cittadino albanese nato nel 1984 e attualmente detenuto a Salonicco. Il caso riguarda le condizioni di detenzione nella direzione della polizia e in quelli della direzione per stranieri di Salonicco.
Sospettato di essere coinvolto in furti e banda armata, nonché del possesso di droga, il sig. Lici è stato arrestato il 24 aprile 2012 e condotto alla direzione della polizia di Salonicco. Ivi è stato trattenuto dal 24 aprile all’11 giugno 2012, quindi dal 1° agosto al 12 novembre 2012. Nel frattempo è stato detenuto, per mancanza di spazio, nei locali della direzione per stranieri del carcere di Salonicco. Il 4 settembre 2012 ha avverso le sue condizioni di detenzione e ha chiesto il suo trasferimento in carcere, senza alcun seguito. Solo il 12 novembre 2012 è stato trasferito nel carcere di Salonicco.
Invocando l'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), il sig. Lici ha denunciato le condizioni di detenzione nella direzione della polizia e nella direzione per stranieri di Salonicco. Invocando l'articolo 13 (diritto ad un rimedio efficace), ha affermato di non aver potuto disporre di alcun ricorso effettivo nell’ordinamento greco.
La Corte, con la sentenza del 17 aprile, ha riconosciuto la violazione, nel caso di specie, dell’articolo 3 e dell’articolo 13 della Convenzione. La Corte rileva, infatti, che, nella fattispecie il ricorrente è stato detenuto per un periodo di sei mesi e diciotto giorni nei locali della Direzione della polizia di Salonicco e in quelli della Direzione per stranieri di Salonicco, vale a dire in locali che, per loro natura, non sono adatti alle esigenze di una carcerazione prolungata ( si veda Kaja v. Grecia , n. 32927 / 03 , § 49 , 27 luglio 2006; Dimitrios Dimopoulos v . Grecia, n. 49658 / 09 , 9 Ottobre 2012). Inoltre, la Corte rileva che il ricorrente era un imputato e che l'articolo 284 del CPP prevede che chi è oggetto di un mandato di custodia cautelare deve essere condotto in carceri riservati agli imputati. Si osserva, poi, che l'articolo 66 § 6 del DPR 141/1991 prevede che la detenzione in custodia cautelare in strutture di polizia è consentita per imputati e condannati solo per il tempo strettamente necessario al loro trasferimento in prigioni o quando tale trasferimento immediato quando non è possibile.
La Corte riconosce al ricorrente la somma di EUR 6500 a titolo di danno non patrimoniale.

 

Violazione dell’articolo 5 CEDU

Sentenza del 24 aprile, I Sezione, Miladinov e a. v. « L’ex Repubblica iugoslava di Macedonia » , domande n. 46398/09, 50570/09, e 50576/09

I ricorrenti, Dimitar Miladinov, Dimitrija Golaboski e Georgi Miladinov sono cittadini macedoni nati, rispettivamente, nel 1966 , 1953 e 1961. Vivono a Struga e a Ohrid, nella "Ex-Repubblica jugoslava di Macedonia". Con il loro ricorso, essi lamentano di essere stati detenuti in custodia cautelare con l'accusa di riciclaggio di denaro, segnatamente nel 2008 i sigg. Miladinov sono stati messi in custodia, mentre il sig. Golaboski è stato posto agli arresti domiciliari in seguito all'apertura di un'indagine sui reati commessi da persone coinvolte nel il fallimento di una società. Assieme agli odierni ricorrenti, appaltatori privati all’epoca dei fatti, erano indagati gli amministratori, i giudici, gli avvocati, i notai e i funzionari che avevano partecipato alla procedura fallimentare.
La detenzione iniziale dei ricorrenti in base ragionevole sospetto che essi avessero commesso dei reati e che potessero influenzare lo svolgimento delle indagini è stata ordinata fino a marzo 2009. Successivamente, l'arresto del signor Golaboski è stato prorogato sei volte e la detenzione degli altri due candidati per ben dieci volte sulla base di un asserito rischio che essi si sottraessero alla giustizia e commettessero nuovi reati. Infine, nel gennaio 2010 i tre ricorrenti sono stati condannati, rispettivamente i sigg.ri Miladinov a sei anni e mezzo di reclusione e il sig. Golaboski a due anni di reclusione.
Invocando l'articolo 5 § § 3 e 4, i ricorrenti contestano le decisioni di proroga della loro custodia e il procedimento di controllo di tali proroghe. Essi sostengono, in particolare, che i giudici non hanno fornito ragioni concrete e sufficienti per la loro detenzione, denunciano la mancanza di una udienza nella procedura di controllo della detenzione, e negano che tale procedura abbia avuto il benché minimo carattere di contraddittorio in quanto le comunicazioni scritte del procuratore in risposta ai loro ricorsi contro gli ordini di proroga dei loro provvedimenti di custodia cautelare non erano state loro comunicate.
I ricorrenti sostengono anche che, in violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione, la formulazione di questi ordini di proroga corrispondeva a una dichiarazione di accusa.
A parere della Corte, i giudici nazionali non hanno dimostrato l'esistenza, nel caso di specie, di un fatto concreto a sostegno della loro conclusione che i ricorrenti presentassero un rischio reale di fuga. I tribunali nazionali non hanno indicato quali aspetti specifici del loro carattere o quale comportamento poteva giustificare la loro opinione secondo cui tutti e tre gli imputati presentavano un persistente rischio di fuga. Inoltre, in nessuna fase i giudici nazionali hanno spiegato nelle loro decisioni perché le alternative alla privazione della libertà che i ricorrenti hanno suggerito nei loro ricorsi contro le decisioni non sarebbero state sufficienti a garantire che il processo seguisse la sua giusta rotta.
La Corte osserva, poi, che tutti gli ordini di proroga e le decisioni sui loro ricorsi contengono la stessa formula sintetica nella medesima formulazione. I giudici non descrivono nel dettaglio la situazione personale dei ricorrenti al di là di un semplice riferimento ai loro averi e alla loro situazione familiare, mentre non vi era alcuna spiegazione del motivo o delle circostanze personali per cui la loro detenzione era necessaria. Pertanto, la Corte ritiene che, omettendo di affrontare i fatti concreti e basandosi essenzialmente sulla gravità delle accuse e la severità della pene che potevano essere comminate, le autorità giudiziarie hanno esteso la custodia in carcere dei ricorrenti primo e secondo, nonché gli arresti domiciliari del terzo ricorrente, per motivi che, anche se " rilevanti", non possono essere considerati "sufficienti " per giustificare la lunghezza della custodia cautelare patita. Pertanto, vi è stata una violazione dell’articolo 5, paragrafo 3, della Convenzione.
Quanto alla doglianza basata sull’articolo 5, paragrafo 4, della Convenzione, la Corte rammenta che, anche se non è sempre necessario che nella procedura di cui a tale articolo siano assicurate le stesse garanzie richieste ai sensi dell'articolo 6 § 1 della Convenzione per il contenzioso penale o civile, essa deve avere un carattere giudiziario e fornire garanzie adeguate al tipo di privazione della libertà in questione. Nel caso di una persona la cui detenzione rientra nell'ambito di applicazione dell'articolo 5 § 1 (c), una udienza è necessaria (vedi Assenov e altri contro Bulgaria, 28 Ottobre, 1998, § 162, Raccolta delle sentenze e delle decisioni 1998-VIII, ed i riferimenti ivi citati).
La Corte nota che, nel caso di specie, la Corte di Skopje ha emesso le sue decisioni dopo aver ricevuto osservazioni scritte del procuratore che la invitavano a respingere i ricorsi dei ricorrenti. Tali osservazioni non sono state notificate ai ricorrenti. Il Governo non ha presentato alcuna prova del contrario. Pertanto, ai ricorrenti è stata negata la possibilità di leggere il parere del pubblico ministero. Tenuto conto di quanto era in gioco per loro nel procedimento, il fatto che non potessero ottenere una copia delle osservazioni del pubblico ministero ha violato il loro diritto a procedere nel contraddittorio. Vi è stata, nel caso di specie, anche una violazione dell’articolo 5, paragrafo 4, della Convenzione.
La Corte riconosce a ciascuno dei ricorrenti EUR 3000 a titolo di danno non patrimoniale, nonché EUR 1350 a titolo di diritti, spese e onorari.

Sentenza del 15 aprile, IV Sezione, Tomaszewscy v. Polonia, domanda n. 8933/05

I ricorrenti, Sebastian Tomaszewski, Artur Tomaszewski, Zbigniew Tomaszewski (nato nel 1989 e morto nel 2004 in un incidente d'auto) e la loro madre sig. ra Bożena Tomaszewska, sono cittadini polacchi residenti a Ostróda. Il caso riguarda la privazione della libertà dei richiedenti in seguito al loro arresto da parte della polizia all'uscita di una discoteca. Secondo la loro versione dei fatti, nella notte tra il 30 e il 31 agosto 2003 i tre fratelli erano in compagnia di un amico in una discoteca tra le 22 e le 4:00. Sono stati fermati da una pattuglia della polizia verso le 4:15 del mattino e portati alla stazione di polizia di Ostróda. Lì, hanno hanno dovuto spogliarsi e sono stati sottoposti a perquisizioni del loro corpo. Sono stati picchiati e colpiti con bastoni e pugni e il più giovane è stato colpito al volto e ha perso conoscenza. Il pestaggio è durato circa 30 minuti.
Secondo la polizia, invece, un alterco che ha avuto luogo intorno alla mezzanotte li ha costretti a intervenire e, in tale occasione, i ricorrenti sono emersi quali individui più violenti, che hanno intercettato mentre lasciavano la discoteca dove si erano rifugiati. Non era stato redatto processo verbale del loro arresto.
I ricorrenti hanno presentato ricorso presso il procuratore distrettuale di Ostróda, il quale ha, però, disposto il non luogo a procedere nel marzo 2004 sulla base del fatto che gli elementi raccolti durante l’indagine non permettevano di accertare un'infrazione imputabile agli agenti. I ricorrenti hanno presentato un nuovo ricorso, ma nel giugno 2004 il procuratore distrettuale ha deciso di chiudere il procedimento per la stessa ragione.
A seguito di nuovo ricorso, il dossier è stato inviato alla Corte distrettuale, che ha confermato la decisione del procuratore di Ostróda del giugno 2004. Al tempo stesso, un'indagine della polizia stabiliva che la polizia aveva riconosciuto i fratelli Tomaszewscy quali persone che avevano partecipato al disturbo dell'ordine pubblico che aveva richiesto l’intervengo della polzia. Artur e Sebastian Tomaszewski sono stati condannati ciascuno a 20 ore di servizio alla comunità.
Basandosi sugli articoli 3 e 5 § § 1, 4 e 5, i ricorrenti lamentano i maltrattamenti subiti da parte della polizia, la natura arbitraria della loro detenzione presso la stazione di polizia, la mancanza di controllo giurisdizionale e l' impossibilità di ottenere un risarcimento del danno subito.
Anzitutto, la Corte ritiene impossibile stabilire, sulla base delle prove ad essa fornite, se le contusioni subite dai ricorrenti derivavano da azioni che possono essere attribuite ad agenti dello Stato ( v. , Petyo Popov v. Bulgaria , n. 75022 / 01 , § 57 , 22 aprile 2009; Timur v. Turchia , n. 29100 / 03 , § 33 , 26 giugno 2007). Inoltre, nessun elemento del fascicolo consente di affermare che le autorità non abbiano adottato misure ragionevoli per ottenere prove relative alle accuse e condurre un'indagine efficace ai sensi dell'articolo 3 del Convenzione. Di conseguenza, la Corte respinge il ricorso ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione in quanto manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § § 3 ( a) e 4 della Convenzione.
La Corte rileva, poi, che il governo polacco non ha dimostrato che esisteva, nell’ordinamento interno, una base legale che giustificasse la privazione di libertà subita dai ricorrenti. Da un lato, la Corte osserva che il codice di procedura per le contravvenzioni a cui si fa riferimento nella risoluzione della Corte Suprema citata dal governo è stata abrogata nel 2001, a seguito dell'adozione del nuovo Codice. Quindi, non era più in vigore al momento in cui la privazione della libertà dei richiedenti è intervenuta. Dall’altro, per quanto riguarda l'articolo 14 della legge sulla polizia, anch’esso citato dal governo polacco, che attribuisce agli agenti il potere di compiere determinati atti nel perseguimento e nella prevenzione dei reati, esso non menziona la privazione della libertà. Sebbene l'articolo 15. 1 della suddetta legge, integrando l'articolo 14, autorizzi la privazione della libertà in casi limitati, nessuna delle ipotesi che vengono citate corrisponde alla situazione dei ricorrenti nella presente causa.
Altresì, quanto al motivo basato sull'articolo 5, § 4, questa disposizione non riguarda quei rimedi che possono aiutare a verificare la legalità di una detenzione già conclusa, in particolare di una breve detenzione come quella in questione nel caso di specie. Pertanto, non vi è stata, nel caso di specie, violazione del paragrafo 4 del citato articolo 5 della Convenzione.
Quanto alla asserita violazione dell’articolo 5, § 5 della Convenzione, emerge dalle decisioni pronunciate dalle autorità nazionali che esse ritenevano che la privazione della libertà dei ricorrenti avesse una base legale nel diritto interno e non fosse impropria. Così, prendendo in considerazione l'approccio interno, la Corte non è convinta che un'azione di risarcimento danni in base all'articolo 417 del codice civile avrebbe costituito un ricorso effettivo ai sensi dell’articolo 5 § 5 della Convenzione. La Corte non è stata informata dell'esistenza di un'altra disposizione di diritto interno che possa consentire ai richiedenti di ottenere un risarcimento per la privazione della libertà incompatibile con la Convenzione. Pertanto, la Corte ritiene che vi sia stata, nel caso di specie, violazione dell'articolo 5 § 5 della Convenzione.
Da ultimo, sono dichiarate manifestamente infondate le doglianze dei ricorrenti fondate, rispettivamente, sull’articolo 5 §2, stante la tempestiva comunicazione dei motivi giuridici e di fatto della privazione della libertà, e sull’articolo 6 §1 della Convenzione, a fronte del riscontrato carattere equo del procedimento de quo.

Sentenza dell’8 aprile, Terza Sezione, Minasyan V. Armenia, domanda n. 44837/08

Il ricorrente, Vardan Minasyan, è nato nel 1974 ed è cittadino armeno. Il caso riguarda la sua detenzione nel corso del procedimento penale nei suoi confronti causa della sua partecipazione il 18 dicembre 2007 ad una sparatoria tra due gruppi di individui in cui una persona è morta e altre due sono rimaste ferite. Il sig. Minasyan si è nascosto in un primo momento e poi, il 22 dicembre del 2007, si è costituito alla polizia. Subito arrestato e detenuto in custodia cautelare, ha visto estendere tale custodia cautelare ben sette volte, fino alla sua la condanna, l’8 Maggio 2009, per tentato omicidio e teppismo aggravato, per un totale di tre anni di reclusione.
Il sig. Minasyan sostiene che parte di questa detenzione – nello specifico, tra il 7 e il 15 ottobre 2008 - non è stata autorizzata da alcun giudice ed era quindi illegale, nonché che i giudici nazionali non hanno motivato la sua custodia cautelare, durata oltre un anno e quattro mesi, e hanno rifiutato di prendere in considerazione un suo ricorso del 22 settembre 2008 avverso tale detenzione.
Con ricorso basato sull’ 5 § § 1 , 3 e 4, il sig. Minasyan si è, quindi, rivolto alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Quanto alla violazione del paragrafo 1 dell’articolo 5 della Convenzione, la Corte osserva di aver già esaminato identici ricorsi in altri casi contro l'Armenia, in tutto i quali essa ha concluso che vi era stata una violazione dell'articolo 5 § 1 poiché la detenzione del ricorrente non era basata una decisione giudiziale ed era quindi illegittima (v. Poghosyan v. Armenia, n. 44068/07, § § 56-64, 20 dicembre 2011; Piruzyan v. Armenia, n. 33376/07, § 79-82, CEDU 2012 (extracts. .); Malkhasyan v. Armenia, n. 6729/07, § 60-63, 26 giugno 2012; Sefilyan e a v. Armenia, n. 22491/08, § 74-77, 2 ottobre 2012) Pertanto, essa ritiene che la detenzione del ricorrente tra il 7e il 15 Ottobre 2008 sia stata illegittima ai sensi dell'articolo 5 § 1.
La Corte non ritiene, invece, che vi sia stata violazione dell’articolo 5 § 3 della Convenzione. Nel valutare le ragioni addotte per il mantenimento in custodia cautelare del ricorrente, la Corte rileva che le autorità giudiziarie competenti avevano avanzato quattro principali ragioni per non concedere il rilascio del ricorrente, vale a dire: 1) che il ricorrente era fortemente sospettato di aver commesso il reato di cui era accusato; 2) la gravità del reato in questione; 3) il fatto che il ricorrente avrebbe probabilmente tentato la fuga e ostacolato il corso della giustizia, se rilasciato e 4) che c'era ancora il rischio che il richiedente commettesse nuovi crimini. La Corte osserva che il caso del ricorrente era di una certa complessità, implicava il difficile compito di determinare i fatti e il grado di presunta responsabilità di ciascuno dei convenuti nonché un esame delle prove, tra cui una serie di pareri di esperti. Le indagini in primo grado sono durate circa un anno e quattro mesi. Dai materiali presentati dalle parti emerge che durante il periodo delle indagini, l'accusa aveva ottenuto vari pareri di esperti, sentito il ricorrente, disposto un suo confronto con testimoni e redatto il capo di imputazione. La Corte, quindi, non rileva eventuali ritardi nel corso del procedimento di indagine. Il giudice ha preso tutte le misure necessarie a garantire che alle udienze potessero partecipare le parti e gli altri soggetti del procedimento, al fine di evitare eventuali rinvii ingiustificati. La Corte è del parere che il procedimento sia stato condotto con la diligenza necessaria, vista la complessità del caso e la quantità di prove che doveva essere accuratamente esaminata dal giudice di merito.
Da ultimo, quanto alla violazione del paragrafo 4 dell’articolo 5 della Convenzione, la Corte ritiene che vi sia stata, nel caso di specie, una sua violazione poiché, come già affermato in procedimenti simili contro l’Armenia, un diniego di riesame della custodia cautelare del ricorrente per il solo motivo che il procedimento penale non è più nella sua fase pre-processuale costituisce una restrizione ingiustificata del suo diritto a presentare ricorso ai sensi dell'articolo 5 § 4 (vedi Poghosyan v. Armenia, n. 44068/07, § § 78-81, 20 dicembre 2011 e Piruzyan v. Armenia, n. 33376/07, § § 125-127, CEDU 2012 (estratti)).

 

Violazione dell’articolo 6 CEDU

Sentenza del 24 aprile, I Sezione, Duško Ivanovski v. « L’ex Repubblica iugoslava di Macedonia » , domanda n. 10718/05

Il ricorrente è un cittadino macedone nato nel 1971 e residente a Skopje. Con il suo ricorso egli denuncia la mancanza di equità di un procedimento penale nei suoi confronti per traffico di droga. Arrestati nel febbraio 2003 con l'accusa di possesso e vendita di eroina e altre sostanze proibite trovate durante uno scavo nel seminterrato del palazzo dove egli abitava. Nel marzo 2003 è stato condannato per il reato in esame e condannato al carcere per due anni e mezzo. La sua condanna è stata confermata dalla Corte Suprema nel novembre 2004.
Invocando l'articolo 6, paragrafi 1 e 3, lettera d), il sig. Ivanovski sostiene in particolare che la sua condanna era ingiusta perché basata su prove ottenute illegalmente - in particolare, l'impronta sulle confezioni dei prodotti trovati in cantina sarebbe stata ottenuta dalla polizia che lo avrebbe spinto e costretto a toccare
Tali pacchetti - e i giudici investiti del procedimento penale hanno rifiutato di sentire testimoni, segnatamente i poliziotti che hanno partecipato a tali operazioni.
La Corte ribadisce, anzitutto, che se lo scopo principale dell'articolo 6 è garantire un processo equo da parte di un giudice competente, non ne consegue che il "giudice" non possa essere anche quello investito della fase predibattimentale. In tal modo, l'articolo 6 può rilevare in tale fase se e in quanto l'equità del processo rischi di essere seriamente compromessa da un errore iniziale.
Per quanto riguarda le prove ammesse, la Corte rileva che sono state ammesse le relazioni del Bureau, un'agenzia di Stato, ottenute nell'ambito dell'indagine preliminare, cioè non in contraddittorio e senza alcuna partecipazione della difesa. Esse sono state redatte senza un ordine del tribunale e la loro trasmissione all’ufficio della pubblica accusa ha determinato l’avvio del processo penale da parte di quest’ultima. Di conseguenza, tali perizie non erano neutrali e indipendenti opinioni di esperti, bensì, secondo la Corte, una sorta di prove incriminanti utilizzate dall'accusa.
La difesa ha contestato sia la qualità che l'accuratezza delle perizie prodotte e ha chiesto che fossero disposte nuove perizie. Il Tribunale ha, però, respinto tale richiesta ritenendo che le perizie presentate dall’accusa erano basate su metodi scientifici ed erano pienamente credibili.
La Corte rileva, poi, che alla difesa è stata negata la possibilità di chiamare gli esperti che aveano preparato la relazione sulle impronte digitali. In tali circostanze , l’accusato non ha avuto alcuna possibilità, come invece previsto ai sensi dell'articolo 6 § § 1 e 3 ( d ), di condurre una difesa attiva - per esempio, chiamando testimoni a discarico o adducendo altre prove.
Di conseguenza, la Corte ritiene che tale impossibilità di contestare le perizie della pubblica accusa hanno creato una disuguaglianza tra la difesa e l'accusa tale da violare il principio della parità delle armi tra le parti e che, se si considera l'equità del procedimento nel suo complesso, vi è stata una violazione dell'articolo 6 § § 1 e 3 ( d ) della Convenzione.

Sentenza del 24 aprile, Lagutin e a. v. Russia, domande nn. 6228/09, 19123/09, 19678/07, 52340/08, e 7451/09

Il caso riguarda le accuse di cinque persone, imputate di spaccio di droga, di essere state vittime di una trappola della polizia.
I richiedenti, tutti abituali utilizzatori di droghe, hanno sostenuto nel corso del procedimento contro di loro che non avevano mai procurato droga prima delle operazioni sotto copertura condotte nei loro confronti e non sarebbero mai stati coinvolti nel traffico di droga se non fossero stati attirati dalla polizia e dai suoi informatori.
Condannati in primo grado a cinque anni di reclusione, hanno presentato appello avverso tali sentenze, ma il giudice ha o respinto le accuse riguardanti la trappola della polizia o ha rifiutato di esaminare espressamente tale accusa nel corso dell’esame nel merito. In ogni caso, la polizia ha testimoniato di aver ordinato falsi acquisti di droga perché aveva ricevuto preliminari "informazioni operative" secondo cui i ricorrenti erano stati precedentemente coinvolti nello spaccio di droga.
Basandosi sull’articolo 6 § 1 della Convenzione, i ricorrenti contestano l’equità dei procedimenti penali nei loro confronti e la mancata presa in considerazione delle loro doglianze circa la trappola della polizia.
La Corte osserva che in ciascuno dei casi, la polizia ha fatto riferimento a preliminari "informazioni operative", secondo cui i ricorrenti erano stati precedentemente coinvolti nel traffico di droga. Tuttavia, secondo i documenti presentati alla Corte, i tribunali russi non avevano cercato di chiarire il contenuto dei documenti operativi presumibilmente compromettenti, e il governo russo non aveva fornito ulteriori dettagli in merito a tali "informazioni operative". La Corte non è, pertanto, in grado di determinare se le autorità avessero avuto buone ragioni per disporre le operazioni segrete e se gli agenti in borghese avevano fatto pressioni sui ricorrenti affinché commettessero i reati in questione. Per quanto riguarda, poi, l'obbligo procedurale di garantire salvaguardie contro gli abusi nel corso di una operazione sotto copertura, la Corte rileva che la condanna penale di ciascun ricorrente era basata totalmente o prevalentemente su prove ottenute nel corso del finto acquisto di droghe. In casi precedenti contro la Russia, la Corte aveva ritenuto che la tecnica degli acquisti di prova rientrava interamente all'interno della competenza degli organismi di law enforcement e aveva ritenuto che questo sistema rivelasse una strutturale mancanza di salvaguardie contro l’agire dell’agente provocatore. A fronte di tali carenze strutturali, il riesame del motivo dei ricorrenti basato sull’intrappolamento era l'unico mezzo idoneo a verificare se vi fossero validi motivi per disporre un'operazione sotto copertura e se la polizia o gli informatori erano rimasti sostanzialmente passivi nel corso di tale operazione. Il mancato esame, da parte dei giudici, della censura fondata sulla trappola della polizia, che, nel caso di specie, era inscindibile dall’affrontare la loro colpevolezza, aveva irrimediabilmente compromesso l'esito dei procedimenti, in contrasto con le garanzie fondamentali di un processo equo, in particolare con i principi del contraddittorio e della parità delle armi tra accusa e difesa. Vi è, quindi, stata una violazione dell'articolo 6 per quanto riguarda tutti i cinque ricorrenti, cui è riconosciuta la somma di EUR 3000 a titolo di danni non patrimoniali.

Sentenza del 22 aprile, II Sezione, El Mentouf v. Svizzera, domanda n. 28334/08

Il ricorrente, Rachid El Mentouf, è un cittadino marocchino nato nel 1972 e residente a Lenzburg (Svizzera). Egli lamenta di essere stato condannato per traffico di droga senza aver potuto conoscenza di tutti gli elementi presenti nel fascicolo. Nel giugno 1997 ha ottenuto un permesso di soggiorno in Svizzera dopo aver sposato una cittadino di tale Stato. Nel febbraio 2006, a seguito di un'indagine avviata nel 2003 per violazione della legge federale sulla droga in cui era coinvolto, il sig. El Mentouf è stato rinviato dinanzi al tribunale correzionale. Nel corso di un’udienza, dopo l'audizione del testimone X , è stato redatto verbale di tale audizione, successivamente ammesso al fascicolo del procedimento nel febbraio 2005. Il giorno successivo, un legale di un coimputato ha chiesto che l'udienza fosse sospesa fino a quando il giudice e gli imputati avessero preso conoscenza dei documenti ammessi. Il Tribunale ha respinto tale richiesta.
Con sentenza del 2 agosto 2006, il sig. El Mentouf è stato condannato per occultamento e grave violazione della legge federale sugli stupefacenti a sette anni di reclusione e all’espulsione dalla Svizzera per un periodo di quindici anni. A seguito del rigetto del suo ricorso, nel 2006 ha presentato un ricorso di nullità per violazione arbitraria della presunzione di innocenza, del pari respinto nel 2007.
Invocando l'articolo 6 § § 1 e 3 b), il sig. El Mentouf sostiene che la scoperto all’udienza del verbale relativo alla testimonianza di X mostra che ci sono possibilità che non siano state a lui comunicate altre prove a discarico nel corso del procedimento penale che ha condotto alla sua condanna.
Ad avviso della Corte non vi è stata, nel caso di specie, alcuna violazione dell’articolo 6 della Convenzione.
Il ricorrente ha dedotto dalla tardiva divulgazione dei verbali del 4 Febbraio 2005, che sono state nascoste altre prove. A questo proposito, la Corte osserva, in via preliminare, che il ricorrente non afferma che il fascicolo del procedimento conteneva elementi di prova a suo carico che egli non ha potuto conoscere. Infatti, non nega che tutti gli elementi sui quali i giudici nazionali hanno basato la propria decisione siano stati prodotti in pubbliche udienze. Il ricorrente sostiene che il fascicolo contiene altri documenti non identificati con precisione, ma che, secondo lui, sarebbe a lui favorevoli. La Corte rileva che l'unica prova fatta valere dal ricorrente a sostegno delle sue affermazioni è la non divulgazione iniziale del verbale dell’udienza del 4 Febbraio 2005. La Corte rileva a questo proposito che i giudici nazionali avevano ritenuto che tutti gli aspetti rilevanti della fattispecie erano stati comunicati al richiedente. Si ritiene inoltre che il contenuto della eventuale parte nascosta del fascicolo istruttorio non sia conosciuta e che qualsiasi speculazione al riguardo è destinata a restare un'ipotesi non verificabile. Si osserva, poi, che il ricorrente non indica come tali elementi potrebbero contribuire alla sua difesa. Infine, non vi è alcuna prova che le sentenze dei giudici nazionali siano state dettate dalla volontà di nascondere documenti alla difesa; a questo proposito, in assenza di una chiara prova di tale intenzione, la Corte può supporre solo la buona fede dei giudici nazionali e dichiarare che, pertanto, non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 6 della Convenzione nel caso di specie.

Sentenza del 17 aprile, V Sezione, Schatschaschwili v. Germania, domanda n. 9154/10

Il ricorrente, Swiadi Schatschaschwili, è un cittadino georgiano che è nato nel 1978 e vive in Georgia. Nell'aprile 2008, un tribunale tedesco lo ha dichiarato colpevole di furto aggravato e estorsione aggravata commessa con forza, avvenuti, rispettivamente, nell’ottobre 2006 a Kassel e nel febbraio 2007 a Göttingen. È stato condannato a nove anni e sei mesi di reclusione, sulla base soprattutto di quanto narrato alla polizia da due vittime dei reati, sentite prima del processo. Tali testimonianze sono state lette in udienza. Poco dopo essere stati sentiti dalla polizia, tali testimoni avevano lasciato, però, la Germania e rifiutato di testimoniare al processo, in quanto traumatizzati dai reati. Il ricorrente ha proposto ricorso costituzionale avverso tale procedimento penale, che, però, la Corte suddetta ha rigettato nell’ottobre 2009.
Invocando l'articolo 6 § § 1 e 3 ( d ) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il ricorrente ha sostenuto che il suo processo era stato ingiusto perché né lui né il suo avvocato avevano avuto l'opportunità di mettere in discussione gli unici testimoni oculari dei reati per i quali era stato condannato.
La Corte non ha, però, ritenuto integrata, nel caso di specie, alcuna violazione della predetta norma della Convenzione. Da un lato, non ritiene che sia stato violato il principio della parità delle armi tra accusa e difesa per il fatto che il pubblico ministero era presente all’audizione dei testimoni da parte della polizia in tale fase preliminare, poiché, secondo l’ordinamento processualpenalistico tedesco, il pubblico ministero ha l’obbligo di condurre indagini imparziali e neutrali sulle vicende sulle quali sono condotte le indagini. Dall’altro, ritiene che non sia stato presentato dal richiedente sufficiente materiale per fondare l’allegata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.

Sentenza del 15 aprile, II Sezione, Hasan Yazıcı v. Turchia, domanda n. 40877/07

Il ricorrente, Hasan Yazıcı, è un cittadino turco nato nel 1945 che vive a Istanbul. Il caso riguarda la condanna del sig. Yazıcı a pagare i danni per aver diffamato un accademico influente che aveva accusato di plagio in un articolo di giornale. Il 15 novembre 2000 un articolo che è stato pubblicato sul quotidiano Milliyet, in cui il ricorrente, un accademico e ex capo del comitato etico dell'Accademia turca delle Scienze, ha accusato un importante accademico ed ex presidente del Consiglio Superiore d’Istruzione, il professor dottor ID, di plagiare Il lavoro di un altro professore per scrivere uno dei suoi libri. Il 29 novembre 2000 il Professore Dr I.D. ha chiesto che fosse avviato un procedimento contro il sig. Yazıcı sostenendo che le sue affermazioni in tale articolo costituivano un attacco personale. Infine, nel maggio del 2006, i giudici turchi hanno ordinato al signor Yazıcı di pagare al professore I.D. una somma a titolo di compensazione, dichiarando che le accuse di plagio erano false e che le opinioni del sig. Yazici nell’articolo su Milliyet erano pari ad un insulto. Il ricorso del sig. Yazıcı per la revisione di questa sentenza è stato respinto nel marzo 2007.
Basandosi in particolare sull'articolo 10, il sig. Yazıcı ha lamentato che la sentenza nei suoi confronti costituiva un'ingerenza ingiustificata nella sua libertà di espressione. Egli ha anche invocato l'articolo 6 § 1, lamentando l'eccessiva durata - più di sei anni - del procedimento nei suoi confronti.
La Corte ritiene integrata nel caso di specie una violazione sia dell’articolo 10 della Convenzione, che del suo articolo 6 § 1, e riconosce al ricorrente l’importo di EUR 6500 a titolo di danno non patrimoniale, nonché di EUR 1500 a titolo di spese, diritti e onorari. Quanto alla violazione dell’articolo 6, essa risultava manifesta stante l’eccessiva durata del procedimento de quo, alla luce dei materiali presentati alla Corte. Per ciò che concerne, invece, la violazione dell’articolo 10 della Convenzione, la Corte sottolinea sia la mancata considerazione, da parte della sessione plenaria della Corte di Cassazione, di elementi che avrebbero dovuto essere presi in considerazione nell’esercizio di bilanciamento in un caso che coinvolge un conflitto tra il diritto alla libertà di espressione e la protezione della reputazione o dei diritti altrui, sia la mancanza di garanzie procedurali nel caso di specie. Pertanto, ritiene che l'interferenza con la libertà di espressione del ricorrente non si basava su motivi sufficienti per dimostrare che l'ingerenza contestata era necessaria, in una società democratica, per la protezione della reputazione e dei diritti altrui. Questa constatazione rende superfluo che la Corte determini se l'importo del risarcimento cui il ricorrente è stato condannato era proporzionato allo scopo perseguito.


Eccessiva durata procedimenti penali (casi ripetitivi)

Sentenza del 22 aprile, Brunner v. Ungheria, domanda n. 60992/12
Sentenza del 22 aprile, Palásti v. Ungheria, domanda n. 54244/10


Violazione dell’articolo 8 CEDU

Sentenza dell’8 aprile, Terza Sezione, Blaj v. Roumania, domanda n. 36259/04

Il ricorrente, Stefan Blaj, è un cittadino romeno che è nato nel 1950 e vive a Bucarest. Il caso riguarda la sua condanna per aver accettato una tangente nel contesto di un concorso. Nel maggio 2004 la signora ND, un medico e tenente colonnello, è stata colta nell'atto di ricevere dalla sig.ra TG, un candidato in un concorso pubblico, una busta piena di denaro in cambio della quale aveva promesso di svelarle le domande d'esame. Interrogata dalla polizia, essa ha dichiarato che il denaro era per il sig. Blaj, che allora era il presidente della commissione d'esame. Essendo stato promesso che sarebbe stata concessa una remissione di pena se avesse collaborato con l'ufficio del pubblico ministero, la sig.ra ND ha accettato di incontrare il sig. Blaj munita di attrezzature audiovisive al fine di registrare la loro conversazione.
Dopo il loro incontro, una notizia di reato è stata redatta nei confronti del sig Blaj. Durante il procedimento che ne è seguito, il sig. Blaj non è stato informato dei suoi diritti o delle accuse contro di lui. Nel maggio 2004 è stato rinviato a giudizio presso l'Alta Corte con l'accusa di aver accettato una tangente. Un anno dopo, sulla base della registrazione audio e video effettuate a sua insaputa, è stato condannato alla pena, sospesa, di un anno e mezzo di reclusione. Il suo appello contro la condanna è stato respinto nel gennaio 2007.
Basandosi, in sostanza, sull'articolo 6 ( diritto ad un processo equo ), il sig. Blaj lamenta, in particolare, di essere stato "provocato " dai servizi investigativi e di non essere stato informato dei suoi diritti e delle accuse contro di lui durante gli interrogatori dopo la redazione della notizia di reato. Ai sensi dell'articolo 8 ( diritto al rispetto della vita privata e familiare ), ha anche contestato l’avvenuta registrazione audio e video delle discussioni che aveva avuto con la sig.ra ND e, in combinato disposto con l'articolo 13 (diritto ad un ricorso effettivo ), ha lamentato di non aver potuto disporre di alcun rimedio giurisdizionale di diritto interno contro tale ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata. Infine, basandosi sull'articolo 34 ( diritto di ricorso individuale ), ha affermato che il difensore che lo rappresenta nel procedimento dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo non aveva avuto accesso alle registrazioni effettuate nel contesto del caso di specie.
Anzitutto, la Corte ritiene che, nel caso di specie, l’articolo 6 della Convenzione non sia stato violato né quanto al paragrafo 1, né quanto al paragrafo 3. Infatti, il ricorrente non avrebbe fornito alcuna prova di essere stato spinto a fornire dichiarazioni diverse da quanto in realtà avvenuto, nonché egli è stato informato fin dall’inizio del procedimento delle accuse mosse nei suoi confronti ed ha potuto disporre, a tal fine, di assistenza legale.
La Corte rileva, inoltre, che le sigg.re TG e ND hanno partecipato al processo e sono state sentite in udienza. Il ricorrente ha avuto la possibilità di interrogarle e mettere in dubbio la loro credibilità. Allo stesso modo, ha potuto ascoltare le registrazioni originali delle conversazioni con la sig.ra ND e ha contestato una delle frasi trascritte. Il giudice nazionale ha spiegato perché, nonostante inesattezze nelle trascrizioni, ha ritenuto concretata la sua responsabilità penale della persona stabilita. Pertanto, il ricorrente ha beneficiato di adeguate garanzie procedurali dinanzi ai giudici nazionali.
Quanto alla asserita violazione dell’articolo 8 della Convenzione, la Corte rammenta che le conversazioni telefoniche e le intercettazioni rientrano nelle nozioni di "vita privata" e "corrispondenza" ai sensi dell'articolo 8 § 1 della Convenzione, essendo l'intercettazione, la memorizzazione dei dati ottenuti e il loro possibile uso nel procedimento penale nei confronti del ricorrente pari ad una "ingerenza di una autorità pubblica" (si veda, tra gli altri, Drakšas v. Lituania, n. 36662/04, § 52, 31 luglio 2012, e Vetter v. Francia, n. 59842/00, § 20, 31 maggio 2005). Tale ingerenza deve essere prevista dalla legge. Nel caso di specie, essa era prevista dagli articoli 91 e ss. del C.P.P.. La Corte osserva, però, che affinché siffatta ingerenza sia legittima, è necessario che siano prese tutte le misure atte a scongiurare il pericolo che l’autorità adotti provvedimenti arbitrari nel caso concreto e che siano soddisfatti tutti i requisiti stabiliti dall’ordinamento interno per giustificare l’ascolto di conversazioni. Ebbene, nel caso di specie la Corte ritiene che siano state soddisfatte tutte le condizioni fissate dall’ordinamento per procedere a tale ascolto, che l’ingerenza avvenuta era “prevista dalla legge” e che l’allora imputato non ha mai contestato l’autenticità di tali registrazioni, né messo in dubbio di aver potuto accedere a tali registrazioni. Pertanto, ad avviso della Corte non vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

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